Israele vuole prendersi la Striscia e creare un governo fantoccio

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RAFAH – La notizia dei colloqui che si stanno tenendo a Parigi per una possibile tregua qui fanno trepidare d’ottimismo molti. “Cessate il fuoco” è la parola che più sento ripetere ovunque. E sebbene non significhi ancora pace, la gente è talmente esausta, che anche una tregua di qualche giorno li emoziona. Significa riposo mentale, possibilità di riabbracciare amici e parenti, tornare a mettere il naso fuori dai rifugi.

Allo stesso tempo, si discute del piano presentato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu al gabinetto di sicurezza sul dopoguerra a Gaza. E quello ci deprime e spaventa molto. Non contempla il lavoro dell’Unrwa – l’agenzia per i rifugiati palestinesi cui molti paesi hanno interrotto i fondi perché una dozzina di membri del loro staff aveva relazioni con i terroristi del 7 ottobre – che però è fondamentale alla distribuzione di aiuti e alla ricostruzione. Contempla zone cuscinetto che divorerebbero molto territorio a nord di Gaza. E parla dell’insediamento di “funzionari locali con esperienza di amministrazione non legati a Paesi o entità che sostengono il terrorismo: che non si capisce chi potrebbero essere. E chi li sceglierebbe: pupazzi di Israele? Insomma, la gente ne è spaventata e lo prende come il segnale più eloquente che chi viveva a nord della Striscia difficilmente riuscirà a fare ritorno nelle proprie case. E che Israele vuole impossessarsi di almeno metà della Striscia, quella più a settentrione.

Una prospettiva terribile che evoca un periodo nero: la presenza dei coloni all’interno di Gaza che si è protratta fino a una ventina d’anni fa. Un’epoca che ricordo bene: soffrivamo perché avevano a loro disposizione il 40 per cento delle terre. Si erano presi le terre migliori al nord, al centro e al sud: e controllavano le fonti d’acqua. E con loro qui, non c’era sviluppo: tutte le attività, le costruzioni erano congelate. Gaza City, quella ormai distrutta, è una città sorta dopo la loro uscita. E almeno all’epoca si poteva guadagnare andando a lavorare in Israele, perché il confine era aperto. Oggi non sarebbe più pensabile. Qui lo ripetono tutti: “Non vogliamo più Hamas, ma nemmeno una nuova presenza di Israele che dopo tutto quel che è accaduto sarebbe sicuramente ostile e pericolosa”. Non sarebbe di sicuro una situazione pacificatoria: ma una forma di nuovo Apartheid. Noi palestinesi abbiamo un autorità. Vogliamo elezioni e trovare al nostro interno una nuova leadership.

Purtroppo, anche a questo ormai credono in pochi. Il timore è anzi che dopo una pausa – breve o lunga che sia – la guerra riprenderà. E durerà ancora a lungo. E infatti la verità è che molti stanno pensando ad andare via. Di me per le mie figlie lo sapete. Ma tanti di quelli che conosco stanno facendo lo stesso: chiedono ad amici e parenti all’estero di mettere in piedi una raccolta fondi e appena raggiunta la cifra necessaria – un salasso per noi ridotti alla fame quaggiù, servono 5mila euro a persona solo per uscire e poi qualcosa per poter ricominciare – si parte. La colletta per le mie ragazze è andata a buon fine, con l’aiuto di tante persone che non conosco ma considero amici. Ora sono in lista d’attesa. Tutto è pronto. Hanno già salutato i familiari e le persone più care. E io aspetto con strazio e allo stesso tempo gioia il momento in cui le saprò al sicuro lontano da qui.

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