La favola bella dell’oro bianco di Campania: buon compleanno al Consorzio della Mozzarella di Bufala Dop

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“Non vi è grande fondazione che non riposi sopra una leggenda”. Il filosofo Ernest Renan siglava così, nel suo pensiero, una grande verità: qualsiasi opera umana che lasci un segno nella storia è legata a un mito, a una fiaba, a un’origine che ne nobiliti ancora di più la già innegabile importanza. Il mare magnum dell’enogastronomia non fa eccezione. Le storie spesso si intrecciano, le leggende di sovrappongono, come nel caso della Mozzarella di Bufala Dop; l’oro bianco della Campania sarebbe un regalo di una ninfa, Baptì-Palìa, che ogni giorno aveva il compito di mungere le bufale e regalare questo nettare della Magna Grecia agli dei dell’Olimpo. Una favola tutta da leggere anche se la Mozzarella di Bufala Dop, il cui Consorzio di tutela quest’anno spegne le sue prime 40 candeline, è nata qualche secolo dopo.

Le origini della mozzarella, ricorda infatti il Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana DOP,  sono direttamente legate alla diffusione dei bufali nell’Italia del Sud, avvenuta non prima dell’XI secolo, sotto il dominio dei Normanni che partirono dalla Sicilia, dove gli animali erano arrivati con le invasioni di Mori e Saraceni, per espandersi verso l’Italia continentale. Utilizzati come animali da lavoro, furono i bufali a trasportare il materiale necessario a fortificare le mura di Salerno, ben presto si stanziarono in Campania e cominciarono una seconda vita, fatta di allevamento, mungitura e prodromi dell’arte casearia. Perché se è vero che nel XV secolo i feudatari Pontifici avevano l’obbligo di destinare parte dei loro possedimenti all’allevamento dei bufali, documenti più antichi di circa 3 secoli testimoniano come questa lunga storia d’amore e di gusto fosse oramai un dato di fatto. Secondo alcuni atti risalenti al XII secolo, a Capua, oggi in piena zona di produzione della Dop, i monaci del monastero di San Lorenzo erano soliti offrire un formaggio denominato mozza o provatura (quando affumicata, la sua capacità di conservazione la rese poi la tipologia più facilmente commerciabile agli inizi), ai pellegrini. La mozza non lasciò mai più la Campania: diventò mozzarella attorno alla metà del 1500, tanto che anche il cuoco dei Papi Bartolomeo Scappi ne fa più volte menzione nei suoi testi, per poi diventare bene di largo consumo in epoca borbonica, quando nella provincia di Caserta il Re fece costruire un grandissimo allevamento di bufale in quella che oggi è la Reggia di Carditello, annettendo alla struttura anche un caseificio ante litteram. 

La Reggia di Carditello 

Una storia lunghissima, non meno affascinante di una leggenda infarcita di ninfe, tradimenti e maledizioni divine (Zeus c’entra sempre), fatta di vicende umane, ricorsi storici e legame indissolubile con un territorio. Lo stesso che ha permesso a quest’arte di prosperare anche quando con l’Unità d’Italia il centro di produzione di Carditello fu abbandonato, lasciando il testimone nelle mani dei piccoli casari, quelli delle bufalare rinascimentali (primi esempi di caseifici rurali) che avevano tramandato di generazione in generazione il mestiere. L’ennesimo gioco della storia li aveva lasciati orfani di un centro propulsore, ma la tenacia contadina non fa sconti e loro continuarono, fino ad assieparsi attorno alla Taverna aversana: il primo mercato all’ingrosso delle mozzarelle, dove quotidianamente veniva stabilito il prezzo di mercato di latte e derivati. Riuscendo a creare un fil rouge popolare, privo di re e padroni, che unisse Caserta a Salerno e in mezzo tutte le vallate dove le bufale prosperano e prosperavano. 

Ed è su questo patrimonio umano e artigiano che dal 13 luglio 1981 vigila il Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Dop, baluardo ostinato e appassionato dell’appartenenza reciproca tra prodotto e territorio. Che proprio sulla difesa di questo legame iscindibile ha posto le sue basi, come ricorda il professor Francesco Addeo, ordinario di Industrie Agrarie presso l’Università Federico II di Napoli, citandone le origini: “Giovanni De Franciscis (Facoltà di Veterinaria dell’Università di Napoli) creò il Covalc, un consorzio per la valorizzazione del latte e dei latticini della Campania, una associazione volontaria che riunì produttori e trasformatori, allo scopo di ottenere un riconoscimento ufficiale per la mozzarella di bufala”. Tutto questo avveniva nei primi anni ’70, in seguito a una serie di leggi (“Convenzione di Stresa del 1951 seguita dalla legge n. 124 del 1954 e poi anche nei successivi DPR del 1955”) che riconoscevano l’origine e la tutela a numerosi derivati del latte, come la Fontina o il Fiore Sardo, prodotti sul territorio italiano, ma non alla Mozzarella di Bufala, il cui consumo era allora ridotto alla sola Campania, anche a causa del tipo di confezionamento “a secco, senza liquido di governo”. Una lotta durata circa un decennio, che ha visto agli albori degli anni ’80 del secolo scorso una prima vittoria, con la nascita del Consorzio, e nel 1996 il  fondamentale riconoscimento della Dop. Sigla, quella della Denominazione, che riconosce tutte le principali missioni dell’organismo di tutela: difendere la denominazione in Italia ed all’estero, favorire il costante miglioramento dei mezzi e della qualità del prodotto, esercitare una costante vigilanza sulla produzione e sul commercio e, last but not the least, sull’uso corretto della sua denominazione.

Decenni di lavoro instancabile, che hanno portato risultati importanti. Oggi la Mozzarella di Bufala Campana Dop “per la sua rinomanza è diventato un formaggio unico” sottolinea il professor Addeo, “la cui specificità legata all’origine di produzione campana può essere garantita a livello globale con controlli analitici mirati, messi a punto proprio da ricercatori campani. Per nessun altro formaggio al mondo può essere verificato che il prodotto in commercio in qualsiasi punto del pianeta proviene dal latte di bufala mediterranea allevata in Italia. Questa fase del controllo ha seguito quella più semplice, costantemente realizzata dall’autorità di controllo, che consente di verificare che il prodotto in commercio è stato ottenuto solo da latte di bufala, libero da latte di qualsiasi altra specie”. Una purezza che in questo caso rappresenta l’identità e la storia, riassumendo nell’oggi tutto quello che è stato fino a oggi. Eppure questi sono solo alcuni degli importanti risultati raggiunti in quarant’anni di lavoro, a cui si aggiunge la “valorizzazione della sostanza secca del latte con incremento della resa di trasformazione” e, fondamentale, il miglioramento del processo di produzione attraverso l’introduzione “di macchine per rendere più automatiche le fasi della trasformazione che assicurano una maggiore garanzia di igiene e sicurezza al consumo”. Perché se la tradizione è ben salda nella mente e nelle mani di chi lavora, la tecnologia non fa paura e dalla Reggia di Caserta, sede del Consorzio, continuano instancabilmente a lavorare su questo binario.

La Mozzarella di Bufala e la tecnologia: una nuova (e felice) storia d’amore

E siccome il futuro è l’unico orizzonte interessante, per chi vuole permettere alla storia di perpetuarsi, obiettivi presenti e futuri sono legati all’abbattere il più possibile l’inquinamento legato al comparto agricolo. “La lavorazione” chiosa Addeo, “negli ultimi anni ha ridotto gli scarti di lavorazione minimizzando l’impatto ambientale determinato dallo sversamento dei reflui di caseificio: si è cominciato a trattarli “in modo da “recuperare proteine del siero e lattosio, prodotti vendibili per usi alimentari o industriali”. Sostenibilità, territorio, storia e futuro. Quali migliori regali per un compleanno che consegna il Consorzio all’età adulta? 

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