La lunga notte del Gran Consiglio

Pubblicità
Pubblicità

Aveva dato ordine a tutti di vestire la sahariana nera, ma alle 17.15 Benito Mussolini uscì dal suo ufficio con l’uniforme di Comandante della Milizia. Dovunque, su per le scale e poi nell’anticamera, si vedevano reparti di miliziani muoversi in un clima crepuscolare, come quando un’epoca tramonta. La dimensione eroica in cui si era avventurato il fascismo si stava prosciugando ed emergevano i detriti, nella sproporzione tra l’epica smisurata e il sentimento della fine. Tutto ormai sapeva di rendiconto, e l’intimidazione del contesto spaventava gli indecisi, rendendo malferma la convinzione di andare fino in fondo. Cosa si nascondeva in quel fondo, dove stava precipitando il regime? Forse una soluzione cruenta, per reinsediare il Duce al potere? «Nulla del genere – assicurava Grandi nell’anticamera –, Mussolini non ha mai figurato in nessuno scontro e in nessuna spedizione punitiva. Lui ha paura del sangue».

Tutti sembrano sapere che è pronta una congiura, e tutti, sorprendentemente, ne parlano al telefono in libertà, come se i controlli non facessero più paura. Il Servizio Speciale Riservato di intercettazione registra un crescendo. Venerdì 23 luglio, il giorno prima del Gran Consiglio, gli stenografi trascrivono la conversazione tra l’ex sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi e l’onorevole Biggini, che è ansioso:

«Hai sentito cosa si sta preparando?».

«C’è in giro una gran puzza di tradimento».

«Il promotore è Grandi, spalleggiato da Galeazzo, Bottai, De Bono coi loro degni compari».

«Comunque hanno bisogno di una maggioranza, cosa che vedo molto difficile».

«Dici?».

«Me lo auguro. Certo che, se io fossi il Duce, li avrei fatti arrestare tutti e buonanotte».

Sono le ore del grande dubbio che ormai si è insediato tra il fascismo e il Paese. Roberto Farinacci, al telefono col presidente del Tribunale Speciale Tringali Casanova, si sente già in guerra con i frondisti:

«Ha visto che roba?».

«Ciò che più mi meraviglia è l’atteggiamento del genero».

«Il Duce ha immesso nella sua famiglia un traditore, che a me è sempre risultato falso. Senza contare che è nemico giurato della grande nazione amica, nonché del suo Capo, e odia il camerata Ribbentrop. Ma il Duce lo ha sempre scusato».

«Ha saputo dell’atteggiamento di De Bono?».

«È chiaro che segue il branco. Quella faccia di pipa mi ha fatto pentire di avergli accordato la mia solidarietà al tempo dell’affare Matteotti. Ma se mi capita sotto, dovrà fare i conti con me. Grandi, il Conte di Mordano, creatura prediletta nonché amico di quei porci degli inglesi, è candidato ad un posto di comando per desiderio del “tappetto”, forse alla reggenza del futuro, molto futuro “Governo della riscossa”. Regoleremo i conti!».

«Li aspetteremo al varco, e non saremo soli. Viva Il Duce».

E il Duce rivela il suo stato d’animo ventiquattr’ore prima della resa dei conti, quando Claretta lo chiama. inconsapevole della partita mortale che sta per aprirsi:

«Ti disturbo? Volevo dirti che secondo la tua promessa, domenica avrei un gran desiderio di andare a Castelporziano».

«Immagina quanto lo desideri anch’io, quanta necessità ne senta…».

«Allora?».

«Credo sia molto difficile, se non impossibile».

«Ma ci dai tanta importanza?».

«Non si tratta di darci più o meno importanza. Questa volta temo che si presenti molto meno facile di quanto tu possa immaginare».

«Mi spaventi…».

«C’è poco da spaventarsi. So che mi chiederanno conto di tutto il mio operato».

«Vedrai che anche questa volta prevarrà la tua buona volontà».

«Me lo auguro. In quanto al bagno, lo rimandiamo al più presto».

«Ciao, Ben mio. Almeno telefona!».

«Appena possibile».

Tutta questa inquietudine, quest’attrazione involontaria per la fine, circondano Mussolini quando si apre la porta, e lui appare. «Andiamo nella trappola», mormora mentre il segretario del Pnf, Scorza, ordina il «Saluto al Duce». Non saluta nessuno, va a sedersi sullo scranno più alto al centro del lungo tavolo a ferro di cavallo, tra Scorza e il quadrumviro De Bono, e sta sfogliando un fascicolo pieno di documenti. Sul fondo della sala del Pappagallo incombe un grande affresco che raffigura Pio IV mentre riceve da un prelato, in ginocchio davanti a lui, l’elenco dei sacerdoti flagellanti imputati di gravi colpe, riti satanici, messe nere, atti sacrileghi. Oggi pare un monito, una sentenza implicita: ogni ribellione verrà stroncata.

Corrucciato, concentrato, Mussolini sembra più offeso che furioso. È la recita del potere, che ha soggiogato l’Italia da 21 anni e che oggi, proprio qui, è giunta al suo ultimo atto.

Il Duce si è infilato volontariamente in questa strettoia, non era obbligato a convocare il Gran Consiglio, l’ha fatto per dare una via di sfogo al malcontento dei gerarchi, piuttosto di lasciarlo dilagare in un Paese ormai instabile e pericolante. È stanco e provato, col cinturone della divisa che gli stringe l’ulcera infiammata. Ma è convinto di riuscire ancora una volta a indirizzare tutto – sentimenti e risentimenti – nell’obbedienza e nella disciplina. Crede nel suo carisma, si illude di trovarlo ancora intatto stasera, mentre i militi chiudono le porte e lui prende la parola, entrando nell’incubo quotidiano dell’Italia 1943: la guerra.

Il Duce seduto al suo tavolo di lavoro a Palazzo Venezia

Il solito istinto gli consiglia di drammatizzare una situazione già gravissima per costringere tutti a fare blocco. «Il conflitto – dice – è giunto a una fase estremamente critica, con l’invasione del territorio metropolitano. In questo stato di cose tutte le correnti ostili al regime fanno massa contro di noi provocando demoralizzazione, specie fra gli imborghesiti, che vedono in pericolo le loro personali posizioni. In questo momento io sono certamente l’uomo più odiato in Italia, il che è logico da parte delle masse ignare, sofferenti, denutrite, sottoposte ai bombardamenti e alle suggestioni della propaganda». Il Duce è convinto che il Gran Consiglio gli chiederà di riconsegnare al Re il comando supremo delle Forze Armate. Allora, perché non sembri una sconfitta, gioca d’anticipo: «Sia detto una volta per tutte che io non ho minimamente sollecitato la delega del comando militare. L’iniziativa in proposito appartiene al Maresciallo Badoglio». Insiste: «Meditavo di lasciare il comando militare, ma mi sembrò disdicevole abbandonare la nave nel mezzo della tempesta. Aspettavo di farlo dopo una giornata di sole, che a tutt’oggi non è venuta».

Mussolini continua a giustificarsi, come se volesse prevenire un atto d’accusa, contestandolo: «Un altro argomento dei disfattisti è che questa guerra non è sentita. Orbene, nessuna guerra è sentita, nemmeno quelle del Risorgimento. La verità è che la guerra non è mai popolare quando comincia, se va male diventa impopolarissima. La guerra è sempre di colui che l’ha dichiarata. È questo il momento di stringere le file. Non ho alcuna difficoltà a cambiare uomini, a girare la vite, nel segno della Patria oggi violata nella sua integrità territoriale». Osserva le due file di sahariane raccolte attorno al tavolo, si accorge che l’annuncio del “giro di vite”, a pochi mesi dal cambio della guardia nel governo, non convince nessuno. Decide di affrontare di petto la sfida. «L’ordine del giorno Grandi chiama sulla scena la Corona. Ora i casi sono due. Il Re può tenermi questo discorso: caro Mussolini, le cose non sono andate bene in quest’ultimo tempo, ma a una fase difficile della guerra può seguirne una migliore. Avete cominciato, continuate. Ma il Re può fare anche quest’altro discorso, ed è il più probabile: dunque, signori del regime, ora che avete l’acqua alla gola vi ricordate che c’è uno Statuto, che c’è un Re. Ebbene io accolgo il vostro invito. Ma poiché vi ritengo responsabili della situazione, approfitto della vostra mossa per liquidarvi di un colpo». Pausa, silenzio, per lasciare che la minaccia si depositi: «Signori, attenzione. L’ordine del giorno Grandi mette in gioco l’esistenza stessa del regime».

Il messaggio è esplicito: attaccando Mussolini, i gerarchi si stanno scavando la fossa. L’incertezza torna a pesare sulla Sala del Pappagallo. Adesso che il fascismo sta precipitando, conviene scommettere sul suo smantellamento, o è meglio rimanere coperti dalla camicia nera, affidando ancora e sempre la propria sorte a Mussolini? Lui è stato sdegnoso, arrogante, come se disprezzasse il Gran Consiglio: ma questo distacco superbo rivela l’imbarazzo di un Capo costretto a giustificarsi davanti ai suoi uomini. Incalzato dalla furia degli eventi, il Gran Consiglio oscilla tra la fedeltà e la velleità. È in questo spazio ambiguo e confuso che si alza lentamente a parlare il generale Emilio De Bono. Ha 77 anni, è stato quadrumviro della Marcia su Roma, Capo della polizia, comandante della Milizia implicato nel delitto Matteotti, governatore della Tripolitania, ministro delle Colonie: gli avversari lo chiamano “il coloniale”, lui segretamente pensa che se finisce l’era Mussolini il suo cursus honorum può candidarlo alla successione. «Sono vecchio, e fui alla battaglia di Adua nel 1896. Dissento interamente dal giudizio dato dal Capo del governo sulle pretese responsabilità dell’esercito e dei suoi Capi. Come si può pretendere che le nostre truppe, armate col fucile modello ’91 di Adua, possano arrestare i carri armati dell’VIII Armata britannica? No: resistere sta bene, ma quando ciò sia possibile».

Scatta in piedi Farinacci, difensore d’ufficio dei nazisti, pronto a sposare integralmente la polemica di Hitler contro i generali italiani: «Mentre i nostri alleati sono sempre stati leali verso di noi, i nostri generali hanno costantemente sabotato la guerra e l’alleanza italo-tedesca. Bisogna chiarire questa situazione una volta per sempre. I tedeschi sono disposti ad aiutarci, ma alla condizione di una sostituzione immediata del Comando Supremo». Mormorii. Il Gran Consiglio è disorientato: Mussolini ha lanciato una sorta di ultimatum, avvertendo il fascismo che è sull’orlo del baratro; De Bono gli ha restituito le accuse di incompetenza, rivelando che si può tener testa al Duce; Farinacci fa capire che l’ortodossia nazifascista porta al commissariamento dell’esercito italiano sotto il comando tedesco. È il momento giusto per introdurre nella sala il cavallo di Troia dell’ordine del giorno Grandi.

Mussolini lo conosce, ma non si è reso conto che quel documento è un ordigno politico, costruito in una concatenazione quasi automatica, che parte da un voto e porta alla fine. Il Re vuole uscire dalla dittatura, ma intende agire soltanto sotto la copertura di un’autorità costituzionale che tolga la fiducia al Duce. Col Parlamento fuori gioco, ecco il Gran Consiglio. Mussolini lo ha voluto come organo costituzionale, e adesso la congiura lo usa contro di lui. Se oggi si voterà, quel voto verrà portato al Re come il sigillo costituzionale per la decisione che dovrà prendere, se vorrà, cambiando la storia d’Italia. Naturalmente nulla è certo e tutto è precario quando un vecchio ordine si sgretola. Davanti al Duce i congiurati manterranno gli impegni presi lontano da lui? E il comandante della Milizia Enzo Galbiati muoverà i suoi uomini armati? È in piedi nella sua divisa fasciata sul braccio perso in Etiopia, col pugnale alla cintura, guarda Mussolini e sembra aspettare solo l’ordine, mentre Grandi inizia il suo intervento. In quel preciso istante c’è la sensazione che l’equilibrio politico del Paese dipenda dall’equilibrio psicologico della Sala del Pappagallo.

Grandi respinge subito l’accusa più sanguinosa, quella di tradimento: «Questa può venire solo da qualche pretoriano ignorante. I partiti e i regimi sono effimeri, solo la Patria è eterna. E se per salvare la Patria noi dovessimo sacrificare regime, partito e noi stessi, non avremmo un attimo di esitazione». Poi attacca Mussolini sulla guerra, il fianco più debole: «All’oscuro come tutti sul conflitto, io ritenevo che la nostra situazione militare non fosse così disperata. Ma è il Duce stesso che oggi ci dichiara di dubitare che una valida resistenza sia materialmente possibile, e ci parla di imperdonabili errori dei vertici militari: ma ha avuto ben 17 anni per creare, formare, selezionare le Forze Armate, 17 anni che bastano a un capitano per diventare generale. Non è possibile separare la responsabilità dei quadri da quella del Comandante Supremo: e non sarebbe generoso attribuire la fortuna a sé e agli altri la disgrazia. Il fatto è che il popolo italiano non crede in questa guerra, alla quale ha preso parte con la rassegnazione di un gregge».

La pausa a questo punto serve per cogliere la percezione quasi fisica che si è varcato un confine e l’assemblea è entrata in una zona di non ritorno. Ma Grandi deve ancora rivolgere a Mussolini l’atto d’accusa capitale, quello di aver ucciso il fascismo originario: «Quando? Nel 1932, l’anno in cui Hitler e il nazismo si affermarono in Germania e questo avvenimento segnò l’inizio della corruzione del fascismo italiano, con la nascita della dittatura. Da movimento politico il fascismo divenne una cattiva polizia e una pessima burocrazia. Oggi minaccia di trascinare la nazione nella sventura della propria sconfitta». Ma un ordine del giorno può salvare il Paese? «Votandolo, il Gran Consiglio delibera decaduto il regime di dittatura, e ripristina nella loro autorità tutte le funzioni statali, a partire dalla Corona, oggi ostaggio in prigionia della dittatura. È ora che il Re esca dal bosco. Se lo fa, ha il diritto di rimanere Capo dello Stato; se non lo fa, allora egli stesso denuncia la carenza della dinastia».

Seduti ai due lati lunghi del tavolo, i membri del Gran Consiglio stanno partecipando allo spettacolo inedito del Duce sotto assedio. Prima altezzoso, nella convinzione di poter domare facilmente le velleità dei gerarchi. Poi sulla difensiva, col capo chino sulle carte, quasi contenessero la mappa segreta della sua resurrezione. Quindi immobile, fissando Grandi per tutto il tempo. Come sempre in Mussolini gli occhi dicono molto: per la prima volta lo sguardo non riesce a dominare la platea, mentre lui si ripara dalla luce con la mano a visiera, nascondendo il volto.

Farinacci propone un suo ordine del giorno, su posizioni opposte a quelle di Grandi, «perché è l’insufficienza della dittatura che ci ha portati alla crisi attuale». Ma si uniscono a Grandi il presidente dell’Accademia d’Italia Luigi Federzoni, il ministro Guardasigilli Alfredo De Marsico, l’economista Alberto De Stefani, l’ex governatore del Dodecanneso Cesare Maria De Vecchi. Il ministro della Cultura popolare Gaetano Polverelli chiama tutti a schierarsi attorno a Mussolini, il suo collega ministro dell’Educazione nazionale Carlo Alberto Biggini sostiene che il Gran Consiglio non può votare, perché è un semplice organo di consultazione: ma il “fascista critico” Giuseppe Bottai taglia corto, e invita il Gran Consiglio a mostrare coraggio.

Parla ancora il Comandante Galbiati, marziale nella sua postura piccolo-mussoliniana, scandendo con la mano su un fianco la sua fedeltà al Duce: «La grande maggioranza del partito sarà sempre pronta a difendere il suo Capo e a seguirlo fin dove egli vorrà. È nelle mani del Duce che noi abbiamo fatto il nostro giuramento, ed è soltanto il suo comando che noi riconosciamo». Sono le 11 passate, si discute da più di sei ore. Ma si alza un braccio al tavolo del Gran Consiglio, Galeazzo Ciano chiede di parlare. Tutti si voltano, per ascoltare fin dove arriva l’intermittente eresia domestica del Conte di Cortellazzo, genero del Duce e secondo i pettegolezzi candidato a succedergli, in un triumvirato post-mussoliniano con Grandi e Federzoni.

Il conte Galeazzo Ciano

Appena giubilato da Mussolini, che il 5 febbraio aveva rivoluzionato tutto il governo, Ciano aveva scartato il ruolo di Luogotenente in Albania, scegliendo quello di ambasciatore presso la Santa Sede. «Vieni a trovarmi spesso – gli dice il Duce salutandolo –, anche tutti i giorni». «A Mussolini voglio bene – commenta subito dopo Ciano –, molto bene». Quel rapporto fiduciario dopo il matrimonio con Edda diventa familiare. Ambizioso ma indolente, mondano e incostante, Ciano è ministro degli Esteri a 33 anni. Chiacchiera al circolo del golf dell’Acquasanta con Lord Lloyd e col Ministro della Real Casa d’Acquarone, si fa fare il ritratto da De Chirico, s’inginocchia in Vaticano per la comunione, ha confidenza con la Principessa Maria José che chiama «bugiardi e porci» gli odiati tedeschi, ma sottovoce gli rivela che nel marito «si è operato un completo revirement d’animo e di costumi, e il figlio che nascerà è di lui, senza intromissione di medici e siringhe». Riceve Donna Edvige Mussolini, la sorella del dittatore, che è venuta fin nella sua stanza per affrontare l’affarismo della famiglia Petacci, visto che Il Duce non l’ascolta.

Ma soprattutto Ciano osserva il Duce da vicino, annota i suoi giudizi e i pregiudizi: quando all’inizio della guerra subisce il fascino di Hitler; quando assume toni bellicosi, ogni volta che parla con un tedesco; quando provoca il Re con giudizi paradossali «per vedere quel vecchio impallidire»; quando tormenta tutti con i suoi sbalzi d’umore, al punto che il Capo della polizia Arturo Bocchini, esasperato, suggerisce di prescrivergli un’intensa cura antiluetica. Considera irrilevanti le battute anticlericali di Mussolini, che bolla il Papato come «un cancro che erode la nostra vita nazionale». Il suo vero obiettivo è spostare il Duce sulle posizioni anti-hitleriane che Ciano ha maturato da tempo: ormai parla male dei nazisti con chiunque, inserisce «un sottile veleno antitedesco» anche nel discorso alla Camera del dicembre ’39, e quando lo avvertono del disappunto dell’ambasciatore di Germania, che era presente, risponde «tanto meglio». Ma Mussolini non cambia strada, non lo segue. Rimanda.

Ciano ubbidisce, come ha sempre fatto, fino a ieri. Oggi però deve scegliere, il Gran Consiglio non lascia scampo. Nel suo intervento evita critiche a Mussolini, piuttosto rievoca tutti i tradimenti tedeschi. «Il Duce non ha nascosto mai nulla all’alleato. Questi invece ci ha nascosto sempre tutto, le operazioni di guerra non ci vennero mai comunicate, se non dopo, come il patto Molotov-Ribbentrop. La Germania ci ha sempre tradito. L’Italia ha in qualsiasi momento il diritto di riprendere la sua libertà d’azione. Non saremo giammai dei traditori, ma dei traditi». Il Conte di Cortellazzo non ha più dubbi, è già entrato in Gran Consiglio deciso a votare l’ordine del giorno Grandi. Lo documenta la registrazione stenografa di una conversazione delle 15,55 di quello stesso giorno, un’ora prima della riunione a Palazzo Venezia. Ciano chiama il Maresciallo De Bono:

«Con Scorza e Bottai abbiamo esaminato l’ordine del giorno Grandi: tu ne sei a conoscenza?».

«Sì, e l’approvo pienamente».

«Ne ero sicuro. Ormai, come stanno le cose, sarebbe da insensati continuare su quella strada».

«Direi criminale».

«Egli ha sempre detto che per l’interesse della Nazione possono perire anche le fazioni. Sembra che l’ora sia giunta. Tutti mi dicono di astenermi dalla votazione, dati i vincoli di parentela, per non confondere una decisione politica con l’ingratitudine. Ma io ho deciso di votare lo stesso, per non sottrarmi alla responsabilità».

«Io non posso dirti nulla. Fai come ti suggerisce la tua coscienza”.

Mussolini all’improvviso cerca di guadagnare tempo. Annuncia che la seduta viene sospesa, perché è quasi mezzanotte, e rinviata all’indomani. Grandi si oppone: «Mentre noi discutiamo, ci sono soldati che muoiono. Da qui dobbiamo uscire con un voto, anche se dovessimo rimanere riuniti una settimana». I due si fissano in silenzio. Poi Mussolini ordina una pausa di venti minuti, e se ne va nel suo studio seguito da Scorza. Grandi raccoglie le adesioni al suo ordine del giorno: 20 firme. Intanto guarda la porta, chiedendosi se tornerà il Duce o se al suo posto irromperà nella sala la milizia. Ma ecco Mussolini, riprende il suo posto. «Ho lasciato a tutti la facoltà di esprimere il proprio pensiero e avrei potuto facilmente impedirlo. Respingo l’ordine del giorno Grandi e non condivido quel che propone Farinacci. Qui si parla di un ritorno allo Statuto: ma lo Statuto è morto, sepolto da tempo. Fascismo, dittatura e Mussolini sono inseparabili. E noi vinceremo la guerra. Non intendo rivelare qui i segreti militari, ma io ho in mano la chiave per risolvere il conflitto». Poi l’ultima minaccia: «prestate molta attenzione, signori, a quel che fate. Io non sono disposto a farmi iugulare».

L’assemblea traballa, sbanda, tornano i dubbi, e con loro la paura. Carlo Scorza, il segretario del partito che aveva assicurato tre volte il suo sì ai congiurati, ora propone un suo documento di piena fedeltà al Duce. È una mossa che può diventare decisiva, perché la presenza del segretario nelle loro file rassicurava gli indecisi. Il presidente del Senato, Giacomo Suardo, piangendo ritira la sua firma, si asterrà. «Io voto il documento Grandi – annuncia Bottai –, non cambio idea, se lo facessi mi disprezzerei». Ma il presidente del Tribunale Speciale, Antonino Tringali-Casanova ammonisce: «L’ordine del giorno Grandi fissa delle responsabilità molto gravi. Lo ricordino i membri del Gran Consiglio prima di dare il loro voto».

È in questo momento che il comandante della Milizia Galbiati entra nella sala gridando: «Cosa diranno i battaglioni di camicie nere accampati alle porte di Roma quando sapranno cos’è accaduto qui questa notte?». La minaccia è esplicita. «Ci siamo» mormora Grandi a De Vecchi, passandogli sotto il tavolo una delle sue due bombe a mano. Poi si alza a parlare: «Non è vero che lo Statuto è morto, è prigioniero. Torniamo alle leggi antiche, quelle dei nostri padri». Si vota per appello nominale: 19 sì all’ordine del giorno Grandi, 7 no, 1 astenuto, il presidente Suardo. Silenzio. Mussolini si sente addosso lo sguardo di tutti. Alzandosi, dice soltanto: «Voi avete provocato la crisi del regime». Scorza sta per lanciare il saluto al Duce, ma lui lo ferma: «la seduta è tolta». Sono le 2.40 di una notte romana inconsapevole. Mentre i gerarchi scendono le scale tra i miliziani sfiniti, un ufficiale risale la corrente gridando: «Qui tutti si calano le brache».

Prima di tornare a casa, ci sono le ultime telefonate del regime. Ciano alle 3.30 chiama una Principessa, che gli domanda:

«Com’è andata? Ero sulle spine».

«Come si prevedeva, l’ordine del giorno Grandi è stato approvato con 19 voti».

«E Mussolini?».

«Si è dato arie da fatalista, ma si vedeva apertamente che soffriva. Ti assicuro che in certi momenti non riusciva più a ingranare. Mi faceva proprio pena».

«Poveretto. Anche lui, però…».

«Certo, chi ha creato questa situazione?».

«Perché non vai via? Non temi di essere in pericolo?».

«Non credo. Lui domani va dal Re, nella speranza che gli confermi la fiducia, sia pure parziale: cosa alla quale credo ben poco. Anzi, v’è di peggio. Vorrei sbagliarmi…».

Giovanni Marinelli, l’ex segretario amministrativo del partito, telefona a una voce femminile singhiozzando:

«Il fascismo è finito».

«Oh Signore».

«Ha prevalso l’ordine del giorno Grandi».

«E tu?».

«Ho fatto il mio dovere d’italiano, anche se questo dovesse costarmi la vita».

«Madonna santa! E ora?».

«Purtroppo, cara, non c’è da far altro che preparare un po’ di roba e cercare di mettersi in salvo».

Anche il Duce ha una telefonata da fare. Alle 3.45 chiama Claretta, che lo assale subito di domande:

«Quando hai finito?».

«Da poco».

«Com’è andata?».

«Come vuoi che andasse?».

«Mi spaventi».

«C’è poco da spaventarsi. Siamo giunti all’epilogo, alla più grande svolta della storia».

«Ma che hai, Benito mio, non ti capisco…».

«La stella si è oscurata».

«Non tormentarti, spiegami».

«È finito tutto. Occorre che anche tu cerchi di metterti al riparo».

«E tu?».

«Non pensare a me, fai presto».

«Sarà una tua idea».

«Disgraziatamente non è così. Fai ciò che ti ho detto, altrimenti potrebbe essere peggio».

Claretta piange.

Scorza attende il Duce nell’anticamera che si è svuotata, poi lo accompagna a Villa Torlonia. Rachele non è andata a dormire, temeva il peggio da giorni, cercava notizie, ha telefonato al segretario del Duce a mezzanotte, all’una, all’una e mezza, alle due. Alle 3.30 una telefonata l’avverte che Mussolini ha lasciato Palazzo Venezia. Lei corre incontro alla macchina nel viale. Capisce tutto guardando suo marito in volto, non ha bisogno di fare domande. Grida soltanto:

«Li avrai fatti arrestare tutti, spero».

Il Duce risponde a voce bassa: «No, non l’ho ancora fatto, ma domattina…».

Nel buio dell’ultima frase, la verità:

«Domattina sarà troppo tardi».

(4. Continua)

LA SERIE
Cronache della caduta del fascismo

1. L’ultima udienza di Mussolini al cospetto del re di Ezio Mauro

2. La diarchia del Ventennio di Ezio Mauro

3. Le due congiure contro il duce di Ezio Mauro

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *