Lavoro, gli italiani sempre più insoddisfatti: stipendi bassi e poca flessibilità, uno su due valuta di lasciare

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MILANO – Passata la grande paura della pandemia, tra gli italiani aumenta il senso di insofferenza verso la propria busta paga o più in generale verso come si è “trattati” al lavoro. Anzi, proprio il mancato supporto da parte delle aziende durante i mesi più duri dei lockdown, la scarsa meritocrazia e la chiusura rispetto alla domanda di flessibilità sono le molle – caricate dal grande stress del Covid – che ora rischiano di scattare. Insoddisfazioni che stanno portando sempre più persone a porsi la domanda: vale la pena di lavorare dove sto? E con sempre maggior frequenza la risposta pare essere di cercare altrove, o almeno entrare nell’ordine di idee che levare le tende è possibile. Due indagini sul grado di soddisfazione degli italiani, con differenti angolature, accendono una serie di spie che punta nella stessa direzione e per certi versi picconano quel mito del posto fisso che, forse per la prima volta per scelta e non per imposizione, si sgretola.

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Peggiora il voto verso le buste paga

In primo luogo la pagella è deficitaria quando si parla di stipendio e annessi e connessi. Il Salary satisfaction 2022, indagine che l’Osservatorio JobPricing dedica alla soddisfazione verso il proprio pacchetto retributivo (in collaborazione, per questa settima edizione, con InfoJobs), mostra chiaramente il rinculo nei giudizi. L’anno scorso, di fronte allo choc pandemico, si erano livellati verso l’alto, come se ci fosse un sentimento diffuso di esser “fortunati” a difendere ancora uno stipendio. Ora, invece, l’indice medio è sceso da 4,4 a 4,1 (in una scala che arriva a dieci): ampiamente insufficiente, in particolare dove (operai, sud e isole) la busta paga è più magra. Il totale degli insoddisfatti passa dal 34 al 60%, con una fetta importante (30% dei rispondenti) che è rimasto stupito dal non aver ricevuto un trattamento economico migliore vista la ripresa degli ultimi mesi. Ora che l’inflazione morde e gravi incertezze pesano sulle prospettive generali, è difficile scorgere una inversione di tendenza alle porte.

“I dati ci confermano come la pandemia abbia sostanzialmente accelerato il cambiamento nel rapporto delle persone con il lavoro e come stiamo emergendo, in modo più forte rispetto al passato, esigenze nuove che le aziende non possono ignorare”, ha commentato il senior partner di JobPricing, Federico Ferri. L’Osservatorio nota infatti che il livello di soddisfazione generale diventa positivo quando il pacchetto retributivo non è composto dalla sola retribuzione fissa, mentre cade a picco se è presente solo questa componente. Ci sono poi molti altri aspetti che, in raffronto alla rilevazione dell’anno scorso, arretrano pericolosamente. Peggiora il giudizio (3,4 punti) alla voce “meritocrazia“, che perde il 12,1% sul 2021. Minata è poi la “fiducia e comprensione“, ovvero il giudizio sul fatto che le motivazioni alla base dei riconoscimenti di merito nell’azienda di appartenenza (promozioni, bonus, aumenti) siano condivisibili: 3,7 punti in pagella per un -9,6% sull’anno scorso.

Le ragioni per dimettersi

I dati assumono una particolare valenza alla luce del trend di abbandono del posto di lavoro che ha accelerato negli ultimi mesi. “Fenomeni come le ‘Grandi dimissioniì’ o la YOLO (you only live once) generation sono le punte avanzate di una insoddisfazione diffusa che coinvolge tutti gli aspetti del rapporto tra persone e aziende, e che richiede un profondo ripensamento della ‘proposta di valore’ collegata ai sistemi di reward e più in generale ai sistemi di gestione delle persone”, ha rimarcato ancora Ferri. uno scenario incerto “che ha portato i lavoratori a profonde considerazioni e riflessioni interiori, soprattutto in riferimento al work-life balance”, ha aggiunto Filippo Saini, head of job di InfoJobs.

LAB. LE GRANDI DIMISSIONI IN ITALIA. Perché si lascia il posto fisso

L’indagine sul perché delle Grandi dimissioni all’italiana è ancora in atto tra gli studiosi. Il dato certo è che un forte incremento c’è stato, con un tasso di dimissioni superiore al 3 per cento nell’ultimo trimestre del 2021. Un picco decennale, per quanto resti frazionale rispetto alla Great resignation degli Stati Uniti. Francesco Armillei, ricercatore presso la Lse, su lavoce.info ha indagato a più riprese il fenomeno. A inizio anno, sulla base di dati che sono ancora in consolidamento, ha tratto un primo identikit dei dimissionari. Ne è emerso un quadro nel quale a fare il passo non era tanto chi voleva cambiare vita in modo radicale, ma chi si trovava nelle condizioni di scegliere un posto “migliore” di quello che lasciava. Non un salto nel buio, ma una rara occasione – per il rigido mercato del lavoro italiano – di scegliere per il meglio. Commentando con Repubblica, allora spiegava: “Non è vero che il fenomeno riguarda soprattutto i giovani, anzi sono gli over 50 i più coinvolti. Non sono le donne a dimettersi di più, ma gli uomini. Non si lascia il posto fisso, il lavoro della vita, ma per lo più contratti a termine. Non sono i laureati a ‘fuggire’, ma si lascia a tutti i livelli di istruzione. Di sicuro lo stress pandemico ha avuto un impatto, basti pensare al +400% di dimissioni tra medici e infermieri. Ma non è la sola spiegazione”. Più di recente ha indagato se fosse possibile stabilire un nesso con alcuni fenomeni che la vulgata richiama: che a trainare le dimissioni sia stato un “rimbalzo” fisiologico dopo il congelamento del 2020, oppure la paura del conagio da Covid o ancora il lavoro da remoto. Nei dati da lui analizzati, però, la risposta su correlazioni univoche è negativa. Individuare una unica ragione, dunque, è un esercizio impossibile e probabilmente sbagliato: un mix di fattori porta a cercare di spostarsi.

Uno su due in cerca di un posto migliore

Cosa, dunque? Nel Salary satisfaction si rimarca che la retribuzione fissa è, oggi come negli anni precedenti, fattore decisivo per la scelta del posto di lavoro, se non altro perché è l’unico elemento conosciuto all’inizio di una nuova esperienza lavorativa. Ma non è la ragione principale per la quale si decide di restare nell’azienda dove ci si trova: le relazioni con colleghi, collaboratori e capi sono il fattore più importante nel valutare il posto attuale. E anche il work-life balance, l’ambiente di lavoro e il contenuto del lavoro sono determinanti per restare.

Randstad ha realizzato una seconda indagine, il Workmonitor, proprio incentrata sull'”esodo silenzioso” dei lavoratori. Marco Ceresa, Group ceo, ha rimarcato a commento che “oltre agli elementi standard come retribuzioni e sicurezza contrattuale, emergono nuove istanze non negoziabili per i dipendenti, che oggi danno importanza alla realizzazione personale, non avendo paura di mettersi in discussione e rinunciare al lavoro attuale se non soddisfatti”.

Secondo le interviste della multinazionale olandese delle risorse umane, il 29% dei lavoratori italiani oggi sta attivamente cercando un nuovo impiego (l’Italia è al terzo posto al mondo in questa classifica), percentuale che arriva al 38% nella fascia tra i 25-34 anni. E un ulteriore 24% di dipendenti sta considerando di mettersi a breve alla ricerca, con un’incidenza più alta tra le fasce giovanili. In pratica uno su due sta mettendo in discussione il proprio impiego. Un dato che la ricerca collega al fatto che gli italiani sono in penultima posizione al mondo fra coloro che nell’ultimo anno hanno ricevuto un aumento di stipendio (il 19%), in ultima per distribuzione dei benefit (53%), tra i meno agevolati dalla flessibilità (il 62% non può scegliere quante ore lavorare, il 60% dove e il 50% quando). In discussione c’è, in fin dei conti, l’intero paradigma della realizzazione attraverso il lavoro, in particolare tra i giovani. Per due terzi degli italiani (77%) “il lavoro è importante nella vita”, ma meno della metà (49%) lo ritiene realmente in grado di offrire uno scopo. E per il 60% la vita personale e più importante di quella lavorativa. Oltre metà (53%) dichiara addirittura che se i soldi non fossero un problema sceglierebbe di non lavorare affatto.

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