Melandri; “Green e sociale. L’Europa deve guidare l’evoluzione della finanza”

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ROMA — Non basta limitarsi a evitare impatti negativi. Se si vuole davvero che la transizione ecologica sia efficace, e vada di pari passo con la rigenerazione sociale, «i mercati dei capitali devono essere regolati tenendo conto anche di un terzo fattore, oltre ai due usati da sempre, e cioè il rischio, da limitare al massimo, e il profitto, da massimizzare costi quel che costi: occorre ottimizzare anche l’impatto ambientale e sociale».

Per celebrare i 10 anni di Human Foundation, Giovanna Melandri, fondatrice e presidente della fondazione che promuove un nuovo modello di economia, a sostegno dell’impresa e della finanza ad impatto, propone «un capitalismo a 3D, che tenga conto del guadagno anche in un’ottica di redistribuzione sociale». Se ne parlerà in evento lunedì 4 nel campus dell’università romana Luiss con il commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, e il presidente del Global Steering Group for Impact Investment, Ronald Cohen.

Meladri, quello che Human Foundation propone è una finanza ESG a 360º?

«La finanza ESG non è ancora la finanza ad impatto, perché rimane nella logica do not harm. È meglio di niente, ma non ancora sufficiente. Noi lavoriamo per aumentare gli investimenti i cui rendimenti vengano misurati anche sulla base degli obiettivi sociali e ambientali che si propongono. Esistono già, e stanno crescendo. Sono passati in dieci anni da 50 a 2500 miliardi di dollari sul totale delle masse finanziarie investite globalmente».

Non è utopistico pensare a una conversione generale della finanza in questa direzione?

«È una “utopia concreta e necessaria” e non è impossibile convertire gli investimenti ESG (attualmente 45 trilioni di dollari) in investimenti impact, che intenzionalmente generino impatti positivi e misurabili sul pianeta e le persone».

Un investimento che ha un efficace impatto sociale può produrre profitti minori?

«Non è detto. Non sempre c’è un trade off tra sostenibilità e competitività, al contrario. C’è bisogno di innovazione e regole. E comunque va modificata la tassazione, rafforzando il vantaggio competitivo degli investimenti ad impatto. Non ha senso tassare il capital gain di un fondo impact come quello di un hedge fund. Inoltre, è urgente superare la distinzione tra rendicontazione finanziaria e non finanziaria e approdare finalmente ad una rendicontazione integrata e ad impatto».

Eppure la rendicontazione sociale viene considerata un significativo passo in avanti verso lo sviluppo sostenibile.

«I bilanci di sostenibilità raramente catturano le trasformazioni vere, hanno il difetto di non essere confrontabili e spesso mancano di trasparenza. C’è un movimento globale di asset manager, fondi, imprese e imprese sociali e think tank impegnato a trovare insieme nuovi criteri di rendicontazione. Se misuri l’impatto (anche in termini monetari) lo puoi gestire e se lo puoi gestire puoi cambiare. Magari provando a partire dall’Europa».

Perché dall’Europa?

«Solo l’Europa ha scelto di regolare la finanza Esg. Ha espresso una leadership per la transizione social green. Ma, se non vogliamo tornare indietro, è arrivato il momento di prendere atto che l’armatura regolatoria non è sufficiente. Oltre al bastone ci vuole la carota. In diverse occasioni Mario Draghi ha affermato che il fabbisogno europeo di investimenti per la transizione verde e digitale è di 500 miliardi l’anno. Noi aggiungiamo, di investimenti ad impatto. Whatever it takes, stavolta lo affermiamo noi».

Quali sono i principali obiettivi della finanza ad impatto?

«Non è un investimento a impatto se lascia invariate le emissioni di CO2, se non innalza i livelli di remunerazione del lavoro, o se sfrutta lavoratori irregolari. Sono molti invece i fondi impact in Europa e nel mondo finalizzati a ridurre il numero di Neet, a rispondere ai nuovi bisogni di social housing, ad allargare i servizi di welfare, ad offrire tecnologie biomedicali a tariffe accessibili e naturalmente a decarbonizzare».

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