Per i supremi giudici, infatti, “la tutela del privato che lamenti una lesione del diritto alla salute (costituzionalmente garantito) è incomprimibile nel suo nucleo essenziale sulla base dell’articolo 32 della Costituzione, ma anche del diritto alla vita familiare e della stessa proprietà, che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento, cagionata dalle immissioni (nella specie, acustiche) intollerabili, provenienti da area pubblica (nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria)”. Insomma, spetta al Comune garantire ai suoi cittadini questo diritto: “La pubblica amministrazione – si legge nel provvedimento – è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, può essere condannata sia al risarcimento del danno patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un “facere”, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità”.
La storia, di cui racconta l’ultimo passaggio Il Messaggero, parte appunto con la denuncia del 2012 di Gianfranco Paroli e della moglie Piera Nava: cinque anni dopo arriva la prima sentenza del tribunale di Brescia che condanna il Comune a pagare 20mila euro a testa per il danno non patrimoniale, 9mila per il danno patrimoniale, più le spese di lite e gli avvocati. Totale, oltre 50mila euro perché, scrivevano i giudici di primo grado, “è innegabile che l’ente proprietario della strada da cui provengono le immissioni denunciate debba provvedere ad adottare le misure idonee a far cessare dette immissioni. Deve quindi essere ordinata al comune convenuto la cessazione immediata delle emissioni rumorose denunciate mediante l’adozione dei provvedimenti opportuni più idonei allo scopo. Vi è stata una carenza di diligenza da parte del comune convenuto”. Con l’aggiunta nella sentenza dell’obbligo per il Comune di predisporre un servizio di vigilanza nelle sere dal giovedì alla domenica e da maggio a ottobre – quando gli schiamazzi della movida danno più fastidio – per evitare assembramenti notturni per strada. In secondo grado, ecco il ribaltamento: il giudice aveva stabilito che non fosse il Comune a dover intervenire e neanche al giudice ordinario stabilire le modalità di intervento della pubblica amministrazione in casi simili.
E arriviamo a oggi, con il ricorso presentato in Cassazione dalla coppia che, a questo punto, si è vista dare ragione. Con una sentenza che, a questo punto, va ben oltre i confini del quartiere Carmine di Brescia ma potrebbe essere utilizzata da altri cittadini stanchi del chiasso notturno contro le amministrazioni di tutta Italia.
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