Nick Drake che viaggia all’estero, ride, vibra ai concerti dei Doors e di Bob Dylan, incontra per caso i Rolling Stones a Tangeri e suona per loro in hotel. L’immagine che restituisce Richard Morton Jack in Nick Drake: The Life, aggiunge qualche raggio al ritratto tragico del cantautore inglese, morto a 26 anni, dopo tre dischi splendidi e dolenti.
È un documentario cartaceo, minuzioso, con amici e collaboratori a descrivere un giovane taciturno ma ironico, disinteressato al sesso (mai una storia, nonostante la sua bellezza), devoto solo alla musica e dallo stile unico. C’è lo slancio di Five Leaves Left nel ’69, carico di aspettative, e il tonfo.
A nessuno interessò un figlio dell’alta borghesia che faceva folk acustico, onirico, esistenziale, non politico. Drake ci provò a suonare dal vivo, e la platea coprì le sue elegie con il tintinnio dei boccali di birra. Odiava la promozione. Non esiste un suo video. L’inadeguatezza è la misura delle menti originali. Malgrado estimatori come John Cale e Elton John, nemmeno Bryter Layter vendette. Con Pink Moon il senso di fallimento acuì la depressione.
Non c’è fiction qui. Parlano le lettere dei medici e i diari del padre Rodney dal 1972, quando Nick torna alla casa di famiglia, ora per ora, come un’eclisse che erode gli spicchi di luce: mutismo, letargia, vacillazioni inspiegabili. Vuole l’elettroshock e un bagno caldo. Il ricovero e un taglio di capelli. Fa paura e tenerezza mentre cerca di salvarsi con la chitarra.
Il 25 novembre 1974, dopo aver mangiato cereali e ascoltato i concerti brandeburghesi di Bach, Nick Drake si toglie di dosso quello che chiamava “il cagnaccio dagli occhi neri”, ingollando un flacone di antidepressivi. È una biografia che fa passare la voglia di idealizzare, per questo è l’unica approvata da sua sorella Gabrielle, che scrive: «Non c’è niente di romantico. La schizofrenia ha crudelmente rubato la sua musa creativa».
Si finisce per sapere proprio tutto, di niente. Lui resta impalpabile, fatto della consistenza dei sogni, e degli incubi. È chiaro che volesse i meriti, non la celebrità. Ripeteva: «Un giorno la gente capirà». Oggi è un culto. Il 7 luglio trenta artisti, da Fontaines D.C. a Ben Harper, pagano tributo nel disco The Endless Coloured Ways a un artista fuori dal suo tempo perché oltre il tempo, confermando la scritta sulla sua lapide: “E ora ci alziamo / e siamo ovunque”.
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