Paolo Genovese: “Nella saga dei Florio c’è la vera natura della lotta di classe”

Pubblicità
Pubblicità

È toccato a Paolo Genovese, regista del fenomeno mondiale Perfetti sconosciuti, trasformare in una serie kolossal I Leoni di Sicilia, il caso editoriale firmato da Stefania Auci. I primi episodi della saga sulla famiglia Florio, affresco sociale e politico dell’Italia dell’800, sono alla Festa di Roma e su Disney+ da mercoledì 25.

‘I leoni di Sicilia’, in anteprima la serie kolossal sulla saga dei Florio

Genovese, la sfida maggiore?

«Il viaggio nel tempo, un mondo ottocentesco che non esiste più. Del porto di Palermo, ove si svolge gran parte della storia, non c’è più neanche una pietra, e poi la città, la luce: è un’era illuminata da candele e lampade ad olio. Con gli attori, Miriam Leone, Michele Riondino e gli altri, siamo partiti dal linguaggio, dalla diversa gestualità. E poi ci sono le differenze di classe. Perché il romanzo, oltre a una forte storia d’amore, è anche un grande scontro di classe. Quella operaia, la borghese, commerciale che cresce e a fine 800 domina tutto. La nobiltà, in crisi specie economica, disdegna i borghesi che maneggiano soldi, ma di quei soldi ha bisogno, in un corto circuito potente».

“In Sicilia non importa far male o far bene, il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’”. dice Don Fabrizio Salina nel Gattopardo.

«I Florio sono stati la novità, coloro che hanno cercato di scardinare l’immobilismo siciliano. La serie insiste sul concetto che il problema della Sicilia è nella mentalità di non cambiare nulla. I Florio vengono dalla Calabria, da Bagnara, sono affamati di idee e hanno grandi intuizioni. Per loro tutto è possibile: se qualcuno va contro la tua idea non significa che sia sbagliata, ma che gli altri non hanno visto quello che tu sei riuscito a vedere. Penso all’idea di assicurazione navale che fa rete tra gli imprenditori, alla conservazione del tonno sott’olio, alla costruzione di navi per collegarsi al continente. Sì, è una famiglia in grande movimento».

Il segreto del successo della saga?

«L’essere estremamente viscerale. Vincenzo Florio è respingente, ma fa anche cose nobili. È figlio della concezione maschile della donna di quel periodo, ma si fa travolgere dall’amore e esce dagli schemi. La storia d’amore, mai stucchevole, è fatta di contrasti che chiamano il lettore a prendere parte per uno dei due amanti. In più c’è un contesto politico e storico importante: l’Ottocento, i moti rivoluzionari, l’Unità d’Italia, raccontato in maniera semplice, divulgativa».

Ci sarà una nuova stagione, L’inverno dei leoni?

«Non so. Resto innamorato del cinema, anche se riconosco alla serialità la possibilità di approfondimento di personaggi. È il pubblico che decide le seconde stagioni».

La cifra indicata come suo compenso per la serie è tra le pubblicate — con quelle di altri registi, Costanzo, Guadagnino, Muccino – nella discussione governativa sul taglio dei finanziamenti al cinema.

«Il compenso non lo decido io, né il produttore o lo stato. Lo decide il mercato: se incassi 100 ti viene riconosciuto x, se incassi dieci ti viene riconosciuto y. Ma il punto è un altro: è giusto che lo Stato devolva un importo così importante per il cinema italiano? E che questo importo sia slegato dal risultato economico al botteghino? È un momento in cui l’industria italiana del cinema va a gonfie vele, c’è la piena occupazione, quindi è giusto investire. Poi c’è la questione dei film finanziati che incassano poco. Noi registi chiamati in causa sui compensi siamo, tra l’altro, quelli che hanno portato grandi incassi al cinema italiano. Però la questione è: è giusto legare il finanziamento agli incassi? In un’industria è importante che un finanziamento statale abbia un ritorno economico. Ma non può essere l’unico criterio, perché la figura statale deve garantire diversità di produzioni. I prodotti più forti potrebbero finanziare quelli più piccoli. Poi ogni legge è migliorabile, come pure il meccanismo di erogazione di finanziamenti può essere migliorato. Ma va fatto in una logica che tenga conto dell’enorme importanza che il cinema ha per il nostro mercato».

È uscito il suo nuovo romanzo.

«Il rumore delle cose nuove. Una storia molto contemporanea che racconta delle gabbie che a volte le coppie si creano nel tempo. Le difficoltà di andare avanti insieme, continuare a condividere ciò che c’era all’inizio, perché le coppie cambiano nel tempo. In questa storia succede una cosa nuova che unisce tre coppie che si erano solo sfiorate, cambia il loro destino. Quello è il rumore del titolo: le cose nuove non hanno per forza un suono piacevole».

“Perfetti sconosciuti” è al trentaquattresimo remake.

«È un film che continua ad accompagnarmi al ritmo di 5 remake l’anno. Ogni cultura la reintepreta. Il remake francese è il più vicino al mio, quello coreano è curioso nel modo di recitare, quello cinese è stato edulcorato dalla censura, penso all’omosessualità, i paesi nordici dettano una recitazione fredda. La struttura però è rimasta la stessa. Solo alcuni hanno cambiato il finale in senso realistico. Per me il senso del film era ragionare su cosa sarebbe successo se gli amici avessero fatto il gioco. Nella realtà non succede ed è amaro vedere le coppie continuare la vita con le loro ipocrisie e segreti. Pochi Paesi hanno cambiato: le coppie si lasciano davvero, e mi sembra banale».

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *