Pronti all’ottava fuga, questa volta non ci resta che risalire verso Nord e accamparci in spiaggia

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Rafah – Ci stiamo preparando. Non abbiamo più alcun dubbio che l’offensiva militare israeliana si estenderà anche qui a Rafah e non possiamo lasciarci cogliere impreparati. Ho passato la notte a chiedermi cosa fare, ne ho discusso con mia moglie, con mio fratello, con gli altri capi delle famiglie con cui dividiamo la stanza e mezzo dove siamo alloggiati da un mese. E alla fine la soluzione che mi sembra più sicura, è anche una delle più difficili ed estreme. Quando Israele ordinerà di evacuare, ci sposteremo sulla spiaggia: il nostro ottavo spostamento dall’inizio della guerra. Ma non quella qui a Rafah, già sovraffollata da migliaia di evacuati: bensì nei pressi di Khan Yunis.

Quella zona oggi è pericolosa, presa di mira: ma quando i militari decideranno di spostare le operazioni qui all’estremo sud vorrà dire – o almeno così mi auguro – che avranno già esplorata palmo a palmo il centro della Striscia. E che la loro attenzione si focalizza altrove. Abbiamo fatto dei sopralluoghi e individuato una zona appartata e per ora semi deserta. Andremo lì. Siamo in 26, una piccola comunità composta da quattro famiglie. Ci sono gli amici che ci avevano ospitato a Khan Yunis con i loro genitori anziani e gli zii. E altre due famiglie più giovani. Una vera tribù di cui fanno parte anche 12 bambini. Ci conosciamo bene, siamo in armonia e molto ben organizzati nella divisione dei compiti. Ci appoggiamo gli uni agli altri, abbiamo sangue diverso ma siamo diventati una grande famiglia. Insomma, ci sentiamo più sicuri tutti insieme e proprio non ce la sentiamo di dividerci ora.

Avevo anche pensato di andare nell’edificio di Deir el Balah dov’è rifugiata mia madre, rimasta vedova una settimana fa, con mio fratello: una ex scuola. Ma lì ci sono già oltre trecento persone. Lo spazio vitale è limitato. So che con mia moglie e le mie figlie ci accetterebbero, ci hanno visto molte volte. Ma dovremmo abbandonare i nostri amici e compagni. Anche per le mie ragazze, che ora convivono con delle coetanee e insieme si prendono cura dei più piccini, sarebbe uno choc. Senza contare che quella situazione è davvero estrema. Ci sono pochi gabinetti, non c’è nessun modo di avere uno spazio intimo e privato. E poi è la triste nuova tradizione di Gaza tenere divise le famiglie: ne abbiamo viste troppe totalmente cancellate perché si erano rifugiati tutti insieme. Così ora preferiamo star divisi. Nella speranza che resti almeno qualcuno come memoria di un intero lignaggio. Quella scuola sovraffollata, insomma, è la nostra meta estrema. Ci andremo se e quando non potremo più fare altrimenti.

Certo, l’area che abbiamo individuato è molto impervia. E dunque dobbiamo essere estremamente preparati. E stiamo infatti tutti insieme studiando la logistica in ogni particolare. Ci siamo procurati delle tende, anche se le abbiamo pagate molto care. E dei tappeti che piazzeremo tutt’intorno per isolarci dal freddo, che a febbraio, vicino al mare e in balia del maltempo, possiamo solo immaginare quanto sarà acuto. Stiamo anche studiando come trasportare l’essenziale: materassi e coperte, bombole del gas e stoviglie. E poi importanti scorte di cibo e di acqua potabile. Perché in quell’area che abbiamo scelto non c’è davvero un bel niente. I nostri bagagli sono già pronti. In verità da quando siamo a Rafah non li abbiamo mai disfatti: ci cambiamo quei pochi abiti che siamo riusciti a portare con noi prendendoli direttamente dalla valigia e una volta lavati, ce li rimettiamo subito dentro, pronti a scappare. Ciascuno poi, che si tratti di grandi o di piccini, porta al collo o legato in vita l’essenziale: i documenti d’identità, essenziali se ci sarà data la possibilità di uscire da Gaza: ma anche per eventualmente identificarci e darci un nome sulla sepoltura se saremo uccisi. E poi alcune cose care: io ho delle foto di famiglia, l’orologio di mio padre, le chiavi della mia casa a Gaza City dove ora vive mia sorella con la sua famiglia che chissà se un giorno ritroverò. Una delle mie figlie, invece, ha in quel sacchetto una lettera della cuginetta ormai morta: era la sua migliore amica.

Non abbiamo ancora deciso quando ci metteremo in viaggio. Aspettiamo che siano i militari a dircelo, coi loro sms o volantini. Per questo vogliamo essere pronti: quando accadrà, non ci sarà un minuto da perdere. In una situazione così pericolosa il tempismo è tutto: non ci si deve muovere un attimo prima – per dire, oggi quella zona che abbiamo individuato è ancora pericolosa – ma nemmeno un attimo dopo, perché le strade si riempiranno di folla e sarà il caos. Sempre che quei volantini li gettino, che gli avvertimenti ce li diano. Potrebbero anche decidere di isolarci, tagliarci la strada per paura di non farsi scappare dalle loro maglie nemmeno un componente di Hamas. Se faranno così sarà un massacro annunciato. Perché qui non c’è più letteralmente spazio per trovare altro rifugio. Nemmeno sulla spiaggia, nemmeno se piantiamo le tende in mare.

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