Salvini frena sul congresso della Lega, rinvio per evitare la resa dei conti

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ROMA – Calma col congresso. «Si può fare anche nel 2025», confida qualche colonnello di Matteo Salvini. Intorno al capo della Lega, da settimane, ronzano due pressioni contrapposte. C’è chi spinge per dare un’accelerata, allestendo i gazebo prima delle Europee, per tagliare la testa al toro e blindare il «Capitano» in vista di un voto, quello per Bruxelles, che si preannuncia come un bagno di sangue. Ma negli ultimi giorni, considerato anche il fiasco sardo, con la Lega calata sull’isola dal 9% del 2019 al 3,7% di oggi, sta prendendo quota un’altra idea: rimandare l’assise nazionale. Non solo all’immediato post-Europee, che rischierebbe di trasformare il raduno in una resa dei conti, ma proprio all’anno prossimo. La mossa metterebbe al riparo il vice-premier dall’onda di malessere che sta montando sui territori. Non soltanto da parte dei bossiani del “Comitato Nord”, di fatto emarginati dalla gestione del partito da anni, ma anche da un pezzo di classe dirigente delle roccaforti, come l’europarlamentare Toni Da Re, tessera della Liga Veneta dall’82, che parlando con Repubblica tre giorni fa è sbottato: «Dopo il voto o Salvini se ne va con le buone, o lo cacciamo con le cattive».

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La giustificazione dietro la linea attendista sul congresso è che prima andrebbero «completati quelli regionali». In ballo non c’è solo la Lombardia, dove aspirerebbero al ruolo di segretario sia l’attuale commissario Fabrizio Cecchetti che il potente capogruppo dei senatori, Max Romeo. Vanno inserite nel computo anche le regioni del Sud, tutte commissariate per bizze locali: la Puglia, che dalla fine del 2021 è sotto la reggenza del senatore leccese Roberto Marti; poi la Campania e la Sicilia, entrambe affidate da Salvini al suo luogotenente nel Meridione, il sottosegretario Claudio Durigon. La Sicilia, per dire, è stata messa sotto tutela nazionale nemmeno tre settimane fa: quasi impossibile arrivare a un congresso locale prima dell’inverno. Ecco perché anche al quartier generale di via Bellerio circola ormai l’ipotesi che l’assise “federale” venga fissata nel 2025. A meno che Salvini non decida di bypassare i territori, per scudarsi prima delle Europee. Ma toccherebbe annunciare la mossa entro una decina di giorni.

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Soprattutto, fare un congresso costa: diverse centinaia di migliaia di euro. Significherebbe sottrarle alla “cassa” della campagna elettorale. I vincoli di statuto non sono un problema, in ogni caso: sono stati ampiamente dribblati in questi anni. La Lega non celebra un congresso dal 2017. E in teoria andrebbe organizzato ogni tre anni.

Dal Carroccio assicurano che la decisione sulla data sarà comunque «condivisa». Saranno insomma sentiti anche i tre governatori del Nord che, a partire dal veneto Luca Zaia, scalpitano per il terzo mandato. La Lega dovrebbe ripresentare l’emendamento per allungare gli incarichi dei presidenti di Regione tra una decina di giorni, in vista del voto del 19 marzo nell’aula del Senato. Anche a costo di spaccare di nuovo la maggioranza. Salvini non sembra intenzionato a mollare la presa: «Due mandati sono un limite alla democrazia», insisteva ieri da un cantiere di Lecco, dov’è rimontato sulla ruspa talismano, come ai tempi del 34%. Ma FdI non cambierà linea. Stesso discorso per Forza Italia: «Due mandati sono sufficienti», chiude il neo-vicesegretario azzurro, Roberto Occhiuto, che governa la Calabria. Annusata l’aria, in Friuli Venezia Giulia i leghisti già si stanno attrezzando per cambiare lo statuto regionale. «Se ne sta discutendo ed è positivo», ammette il presidente Massimiliano Fedriga. Ma Zaia questa carta l’ha già calata in passato: nel 2025 correrebbe per il quarto incarico di fila. Per questo preme, insieme a Salvini, per una legge nazionale che mandi indietro il contatore.

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