Debito e spread: perché le agenzie di rating possono declassare l’Italia

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Benvenuti su Outlook, la newsletter di Repubblica che analizza l’economia, la finanza, i mercati internazionali.

Quello che so sui mercati finanziari e l’economia l’ho imparato lavorando per una delle principali Sim di Piazza Affari, le società che comprano e vendono i titoli in Borsa per i grandi investitori. L’ho portato con me quando sono diventato giornalista di Repubblica dove, tra le altre cose, mi sono occupato di inchieste e grandi scandali come quello di Parmalat, contribuendo a smascherare i suoi bilanci falsi.

Ogni mercoledì parleremo di società quotate e no, di personaggi, istituzioni, di scandali e inchieste legate a questo mondo. Se volete scrivermi, la mia mail è [email protected].

Buona lettura

Walter Galbiati, vice direttore di Repubblica

Il punto di partenza dell’attuale incertezza che aleggia intorno al debito italiano è la revisione al ribasso delle stime di crescita effettuata dal governo Meloni, in un contesto di rialzo dei costi del debito, perché, secondo molti osservatori, tra cui tutte le agenzie di rating, il debito italiano è sostenibile solo a fronte di una buona crescita dell’economia. Se manca e i costi degli interessi esplodono con il Btp a dieci anni sopra il 5%, il sistema è a rischio.

I numeri dell’Italia. La Nadef, la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, ha cristallizzato che il Pil nel 2023 salirà dello 0,8% invece del 1% e nel 2024 di un ottimistico 1,2% contro un precedente 1,5%, con un impatto sul rientro del debito che scenderà meno del previsto in rapporto al Pil: dal 141,7% del 2022 al 140,2% di quest’anno, per poi fermarsi riducendosi solo dello 0,1% nel 2024 (140,1%) e di un altro 0,2% nel 2025(139,9%). Nel 2026 sarà al 139,6%.

Il problema dei tassi. A complicare il quadro macro-economico ci si è messa la politica della Banca centrale europea che ha portato i tassi di interesse dallo zero al 4% con la conferma, avvenuta nell’ultima riunione di settembre, che li terrà alti per lungo tempo.

Per il governo è un problema perché vedrà crescere per i prossimi anni il costo del rifinanziamento che nel 2023 sarà pari al 3,7% del Pil (oltre 75 miliardi) per poi andare peggio man mano che verranno emessi nuovi titoli di Stato con rendimenti in crescita. Salirà al 4,2% il prossimo anno, al 4,3% nel 2025 e al 4,6% nel 2026 con l’effetto dei rincari che si spalmerà lungo tutta la vita dei Btp.

Il “rischio finanziario”. Si cammina lungo un sentiero stretto e il rischio maggiore che il governo vede è l’allargamento dello spread tra i Btp e il Bund tedesco, che produrrebbe un ulteriore rincaro degli interessi amplificando i tassi della Bce: nella Nadef – ha messo nero su bianco il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti – lo scenario “rischio finanziario” ipotizza nel 2024 un rialzo dello spread di 100 punti base, che sommato agli attuali 180/190 intorno ai quali viaggia, significa arrivare a ridosso dei 300 punti. Un livello che farebbe saltare gli obiettivi della Nadef.

Siamo lontani dai 600 punti del 2011 che costrinsero Berlusconi alle dimissioni a favore di un governo tecnico col compito di riportare in ordine i conti dello Stato, ma vicini alla soglia dei 350 che nei corridoi del Ministero delle Finanze sono considerati il punto di crisi dei nostri conti.

Il primo giudizio arriva il 20 ottobre. Intorno a questi numeri ruota la fiducia dei mercati sulla capacità dell’Italia di rifinanziarsi. Al di là delle compravendite di ogni giorno che fanno scendere e salire i prezzi, un primo giudizio arriverà il 20 ottobre prossimo quando Standard & Poor’s esprimerà la propria opinione sui conti del Paese. Ad aprile avevano giudicato l’Italia BBB sul lungo termine con un outlook stabile.

Un voto che ci posiziona due gradini sopra l’Investment grade che nella scala di S&P si trasforma in Non investment grade quando raggiunge BB. Nel caso volesse cambiare qualcosa l’agenzia di rating dovrebbe prima modificare l’outlook da stabile a negativo e poi dopo un periodo di monitoraggio abbassare il rating.

Perché S&P potrebbe abbassare l’outlook? Per gli analisti di S&P questo potrebbe avvenire “nel caso in cui il governo non riuscisse a ridurre il rapporto debito/Pil a causa di persistenti deviazioni fiscali, di uno shock prolungato dei tassi di interesse o come conseguenza di una crescita più debole del previsto”.

In più il “downside scenario” contempla anche la parziale attuazione delle riforme, soprattutto quelle legate all’erogazione dei fondi UE, perché  se non realizzate mettono a rischio la crescita e le finanze pubbliche. Gli ingredienti dunque per un cambio dell’outlook ci sono tutti, soprattutto se S&P non dovesse considerare sufficienti le riduzioni del rapporto debito/Pil contenuti nella Nadef.

Secondo le stime nel 2026 il rapporto debito lordo/Pil sarebbe ancora pari al 139,6%, ben al di sopra dell’attuale media dell’area dell’euro (93%), e il terzo livello più alto di debito sovrano tra i Paesi Ocse, dopo Giappone e Grecia.

I tre pericoli che vede Dbrs. Dopo S&P sarà la volta di un’altra agenzia di rating, Dbrs, che si pronuncerà il 27 ottobre. Anche per loro sarà determinante la riduzione del rapporto debito Pil e l’impatto del Pnrr sulla crescita, che già ad aprile avevano definito più debole del previsto.

Nell’ultimo report, Dbrs aveva identificato tre motivi per cui avrebbe potuto abbassare il rating dell’Italia che per loro è BBB con outlook stabile, in linea con S&P. Ovvero se 1) le prospettive economiche peggiorano in modo sostanziale, causando un aumento significativo dell’andamento del rapporto debito pubblico/Pil; 2) il governo mostra un impegno significativamente più debole nel ridurre il rapporto debito/Pil; oppure 3) si cristallizza un importo considerevole di passività potenziali, che potrebbero portare a un deterioramento sostanziale dei conti pubblici.

I tre scenari negativi di Fitch. Gli esami per l’Italia, però, non sono finiti, ma proseguono il 10 novembre quando si pronuncerà Fitch che attualmente giudica l’Italia BBB con outlook stabile, proprio come S&P e Dbrs. E sono sempre tre e sempre in linea con i precedenti gli scenari macro e di finanza pubblica che potrebbero indurre gli analisti di Fitch a modificare prima l’oulook e poi eventualmente il rating sull’Italia.

1) Una minore fiducia nell’attuazione degli aggiustamenti del saldo primario necessari per contenere i rischi di sostenibilità fiscale, nel contesto dell’elevato onere del debito italiano; 2) un’ulteriore e persistente inasprimento delle condizioni di finanziamento pubblico che aggrava i problemi di sostenibilità del debito, ad esempio legati all’ammissibilità al Tpi (Transmission Protection Mechanism, lo strumento del quale si è dotata la BCE per contrastare spread ingiustificatamente elevati fra i singoli Paesi dell’area euro); 3) segnali di indebolimento del potenziale di crescita dovuti, ad esempio, a forti ritardi nell’esecuzione degli investimenti e/o alla mancata attuazione delle riforme strutturali.

Il D-Day: 21 novembre. E’ un altro però il giorno cruciale per l’Italia, ed è il 21 novembre quello in cui si pronunceranno l’Unione europea sulla Nadef e l’ultima agenza di rating Moody’s, che a differenza delle altre, tiene appesa l’Italia sull’orlo dell’Investment grade. L’attuale giudizio è Baa3 con outlook negativo e il passo successivo è, senza la necessità di cambiare l’outlook, Ba1, la prima soglia del Non investment grade che collocherebbe i titoli di Stato italiano tra i titoli spazzatura (junk), o speculativi.

Si tratterebbe di una retrocessione che potrebbe fare aumentare lo spread portandolo intorno alla soglia dei 350 punti considerata a rischio dal governo. E nel breve periodo invogliare un abbassamento di rating anche da parte delle altre agenzie (S&P, Dbrs e Fitch) qualora avessero nel frattempo già cambiato l’outlook da stabile a negativo.

Cosa può pesare negativamente per Moody’s. Le minacce sono legate a crescita e debito. “Probabilmente – scrivevano gli analisti di Moody’s nell’ultimo report pubblicato ad aprile sull’Italia – abbasseremmo il rating se dovessimo prevedere un significativo indebolimento della solidità economica e fiscale del Paese. Per esempio, se vi fossero indicazioni di un indebolimento dell’impegno del governo nell’attuazione delle politiche di stimolo alla crescita, comprese quelle delineate nel PNRR, eserciterebbe una pressione al ribasso sul rating a causa della sua importanza per le future dinamiche del debito”.

I tre pericoli di Moody’s. Nel dettaglio Moody’s vede tre rischi per il profilo creditizio dell’Italia: 1) Rischi legati alla difficile attuazione di politiche che potrebbero aumentare il potenziale di crescita. Il governo sta subendo ritardi nella realizzazione dei progetti di investimento in linea con il calendario originale e, sebbene stia cercando di accelerare l’esecuzione dei progetti di investimento e di modificare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), i continui ritardi esercitano una pressione al ribasso sulla spesa per investimenti in un momento in cui le condizioni di finanziamento più rigide peseranno sempre più sull’attività economica. In ultima analisi, ciò potrebbe avere un impatto negativo sul potenziale di crescita.

2) Rischio che la limitazione delle forniture energetiche indebolisca le prospettive economiche. Sebbene – scrivevano ad aprile gli analisti di Moody’s – il rischio immediato di scarsità di energia sia diminuito, rimangono alcune criticità se il consumo di gas riprende o se le forniture alternative di gas diventano più scarse.

3) Rischio di indebolimento della forza fiscale. “Un differenziale positivo tra crescita nominale e tassi d’interesse è la chiave del nostro scenario di base”, scrive Moodys che considera la traiettoria del debito vulnerabile agli shock. “Una crescita economica significativamente più debole o costi di finanziamento più elevati di quelli che attualmente ipotizziamo, porterebbero a un aumento dell’onere del debito in assenza di saldi primari più elevati del previsto”.

Insomma un autunno caldo che non farà dormire sonni tranquilli al ministro dell’Economia, Giorgetti.

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