Ilaria Salis, la grande resa del governo: un altro anno in cella poi si punta all’espulsione

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BUDAPEST — C’è un suono che il Governo italiano dovrebbe tenere sempre bene a mente quando parla di Ilaria Salis: il rumore delle catene e del guinzaglio a cui era legata la docente. In quel tintinnare, che rimbombava forte mentre Ilaria scendeva le scale del palazzo di Giustizia di Budapest per tornare in cella, c’è infatti tutta l’ipocrisia di chi oggi dice: «Sbagliato politicizzare» (il ministro degli Esteri, Antonio Tajani) o «la famiglia Salis ha perso tempo: doveva chiedere i domiciliari un anno fa» (il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, smentito dalla cronaca). Ipocrisia perché — se n’è avuto contezza ieri — la libertà di Ilaria è una questione tutta politica.

È politica la scelta di portarla in aula in catene, nonostante tutte le polemiche, perché arriva direttamente dall’amministrazione giudiziaria, che dipende dal ministero della Giustizia. È il governo di Orbán, e non il giudice di aula, ad aver deciso di riperpetuare lo scempio di ogni direttiva europea davanti agli occhi increduli dei nostri parlamentari. È stata inoltre politica la scelta del ministero della Giustizia italiano di non depositare poche righe (come tra l’altro gli stessi uffici di via Arenula avevano sostenuto si potesse fare) in cui si offrivano garanzie logistiche per gli arresti domiciliari: sarebbero forse bastate per convincere il giovane giudice Jozsef Sòs a non sostenere, come ha fatto, che Ilaria Salis non poteva scontare gli arresti a casa perché «pericolosa, visti i suoi precedenti penali in Italia e potenzialmente a rischio fuga».

Ed è soprattutto politico quello che accadrà da questo momento in poi. Seppur nascosto dietro il solito lessico istituzionale, la posizione del Governo è chiara: «Ci dispiace per le catene, ma decide l’Ungheria». Tradotto: non faremo niente. La parabola che la Farnesina immagina è questa: un processo che dovrebbe finire nella migliore delle ipotesi entro la fine del 2024. Salis verosimilmente sarà condannata («ci sono video chiarissimi», continuano a ripetere off the record al Governo come se la questione fosse di merito e non il rispetto delle garanzie per una ragazza che rischia più di venti anni di carcere).

A condanna incassata si punta all’espulsione della ragazza, come la legge ungherese prevede, per scontare il resto della pena in Italia. Questo significa che Ilaria dovrebbe restare almeno un altro anno nelle prigioni ungheresi. E che tutto debba essere ancora lasciato al buon cuore di Orbán e alle regole di un sistema che, tra le altre cose, prevede per esempio che la detenzione domiciliare valga un quinto di quella in carcere: per assurdo, se condannata a 10 anni, la Salis dovrebbe trascorrere 50 anni ai domiciliari per espiare la pena. Follie. Che la difesa di Ilaria non ha certo intenzione di assecondare. È stato già annunciato il ricorso contro la decisione del giudice Sòs, si valuta un ricorso alla Corte europea (che però ha dei tempi lunghissimi). Ma, evidentemente, la questione è sempre politica: Roberto Salis, come spiega nell’intervista in queste pagine, ha assecondato la linea che gli è stata suggerita dal Governo — la richiesta dei domiciliari in Ungheria, toni soft verso la politica — e si è ritrovato con un pugno di mosche in mano. Resta il percorso di questo anno, però: per esempio come per nove mesi il Governo italiano non abbia mosso un dito con l’amico Orbán; che l’ambasciata a Budapest abbia affidato il dossier a dei funzionari o che abbia ricevuto il padre di Ilaria soltanto dopo che Repubblica ha denunciato il caso. Non si tratta di “politicizzare”. Ma di raccontare la verità.

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