L’ala moderata e i duri. Nelle aule della Sapienza dove cresce la protesta: “Basta silenzio su Gaza”

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ROMA – «Lo vedete il silenzio che c’è? Nemmeno uno striscione per il cessate il fuoco, una mossa di solidarietà alla popolazione palestinese. L’Università tace, peggio, fa accordi economici con Israele e avalla una narrazione a senso unico, sorda alla sofferenza della Palestina. Allora se non facciamo noi rumore, chi lo fa?». Dienabou Coulibaly ha 21 anni, è scesa dal pullman che dai Castelli la porta alla Sapienza dove studia Lingue e letterature straniere. Cammina verso la riunione di Link, il coordinamento universitario nato nel 2010 durante le proteste dell’Onda anti-Gelmini. Quattordici anni dopo, Nabou partecipa alle assemblee transfemministe, antirazziste, anticapitaliste, antifasciste, e ora anti-Israele, saldate nell’ultimo fronte di rivolta che da settimane agita gli atenei: gli accordi universitari tra Italia e Israele, bloccati o criticati dagli atenei di Torino e Pisa. Nabou stava dentro al Rettorato occupato la settimana scorsa, rivendicando quell’occupazione in una lettera alla rettrice: «Dopo tutte le mobilitazioni della comunità accademica non si può far finta di nulla, la Sapienza deve prendere una posizione netta su quello che sta succedendo in Palestina e trarne le conseguenze per quanto riguarda i rapporti con le istituzioni israeliane».

L’incontro tra più anime

Non è la sola Nabou. Alla Sapienza s’incontrano però due anime, o forse molte più. Mentre la vita universitaria scorre, c’è un fronte partecipe e vivace che sta provando a dar voce al conflitto, unito dalla condanna alla «brutale violenza» di Hamas ma preoccupato dal destino di Gaza. Si legge, ad esempio, in un appello applaudito dai collettivi e firmato da 100 docenti che reclamano l’impegno della comunità accademica per «l’immediato cessate il fuoco, l’adozione di una risoluzione di solidarietà per Gaza e tutte le vittime civili, l’apertura di una discussione pubblica nell’ateneo per la cooperazione con le università palestinesi e il disinvestimento da società che finanziano l’occupazione illegale di territori da parte di Israele», ma anche «la garanzia della libertà di parola e del diritto di tutti al dibattito e alla riflessione critica».

L’avanguardia di Cambiare rotta

E c’è poi un’ala più radicale che ha la sua avanguardia in Cambiare rotta, l’organizzazione giovanile comunista legata a Potere al popolo e alla Rete dei comunisti, che in tutta Italia guida la galassia dei ribelli composta da un altro paio di sigle. Sono quelli che scendono in strada con le associazioni pro Palestina, che occupano le facoltà, che irrompono a lezione, che contestano i rettori, che si scontrano con la Digos.

“Siamo antimilitaristi”

Federico è uno di loro, ha 20 anni, studia Filosofia, arriva da piazzale Aldo Moro distribuendo i volantini con sopra scritto: “Da Torino a Bari, blocchiamo il bando Maeci Italia-Israele”. «Siamo antimilitaristi», dice. Parla di «genocidio», di «apartheid», di «Palestina come prigione a cielo aperto». Poi sul futuro in Medio Oriente aggiunge: «Tutti vorremmo la convivenza pacifica ma ora non possono esserci più due popoli e due Stati. Ci può essere uno Stato con due popoli, ma non può essere lo Stato d’Israele che vìola le risoluzioni dell’Onu e ha ucciso 30mila persone. Noi sentiamo di schierarci senza ambiguità».

“Hamas? Io non giustifico il 7 ottobre”

L’ambiguità, secondo loro, sarebbe «quella dell’università che si nasconde dietro al pacifismo mentre fa accordi con la Marina militare, con Leonardo, con la Nato, con le università israeliane che collaborano alla guerra in corso dal punto di vista pratico e ideologico». E Hamas? «Non hanno il nostro sostegno, io non giustifico il 7 ottobre — dice Federico — ma non posso giudicare, non ne ho il diritto. Però sto con la resistenza e l’autodeterminazione del popolo palestinese». Anche dagli altri collettivi le risposte si fanno più sfuggenti: «La Palestina deve essere libera», dice Nabou. «L’occupazione deve finire, ma come Coordinamento dei collettivi non abbiamo una posizione unitaria e preferiamo non rispondere», spiegano Matilde e Michele, lei a Filosofia, lui a Scienze Politiche. Certo, «le vittime civili sono tutte uguali, ma non è nostro compito portare fiori o lutto, noi siamo studenti quindi chiediamo alla nostra istituzione lo stop a una tragedia umanitaria e a forme di collaborazione con la guerra».

La rettrice Antonella Polimeni: dialogo con chi rappresenta gli studenti

La rettrice Antonella Polimeni ha spiegato più volte che è disposta al dialogo con chi siede negli organi accademici e rappresenta gli studenti, non a una minoranza di collettivi. Dietro gli striscioni erano 3-400, lo zoccolo duro, un granello di sabbia dentro l’ateneo più grande d’Europa con i suoi 122mila studenti. «Siamo pochi, è vero — ammette Nabou — ma molti hanno paura. Noi abbiamo il coraggio di esprimerci». Se li si chiama intolleranti o violenti però si arrabbiano. «A chi facciamo paura? Non abbiamo caschi, scudi», dice ancora Nabou. E allora le irruzioni a lezione, i dibattiti bloccati? «Ma sono stati loro i primi a censurarci, ad annullare i nostri eventi. Abbiamo provato a dialogare — raccontano i ragazzi di tutti i collettivi — ma davanti al silenzio, al muro dei rettori o della ministra Bernini che dialoga con il capo della polizia abbiamo dovuto alzare il livello di scontro in modo che non potessero più ignorarci. Noi abbiamo gesti politici forti, ma loro rispondono con Digos e polizia. La loro paura è che la nostra mobilitazione sfoci in qualcosa di più grande».

Alla Sapienza è ora di pranzo, si parla di microbiologia, dell’appello di giugno. Pure quelli dei collettivi tornano a studiare. Sui muri non ci sono più tracce del passaggio dei cortei. È un giorno di quiete. Prima di una nuova tempesta: il 9 aprile davanti alla Farnesina, il 16 aprile fuori dal Senato accademico. Passa un ragazzo, guarda distratto il volantino: «Se ci stanno gli scontri io però non vado». (1 – continua)

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