“L’Italia è il Paese che amo”, Silvio Berlusconi. I 30 anni del video che cambiò la politica

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Silvio Berlusconi guardò la telecamera, l’obiettivo velato da una calza di nylon per scaldare l’immagine e levigare la faccia meglio di un chirurgo. Il Cavaliere era pronto a registrare il video. Si stampò un sorriso berlusconiano sulla faccia e ripassò mentalmente l’incipit, “L’Italia è il Paese che amo”. Sarebbe diventato un tormentone lungo sei lustri: battuta, parodia, calembour, esergo, epitaffio, meme virale, se solo nel gennaio del 1994 qualcuno avesse la vaga idea di cosa sia un meme e che diavolo c’entrino i virus.

Berlusconi è seduto dietro una scrivania, ammennicoli, suppellettili, libri alle sue spalle, cornici con foto familiari rivolte verso l’inquadratura. Non è lo studio di villa San Martino ad Arcore, né quello di una delle sue residenze private o aziendali. Il patron di Fininvest e presidente del Milan è seduto in un cantiere nel giardino di villa Macherio, detta Belvedere, l’ha comprata sei anni prima dalla Provincia di Milano. Se la scrivania sembra quella ordinata di chi non ci lavora sopra, è perché non ci lavora effettivamente nessuno; se la libreria alle sue spalle pare quella intonsa di chi non legge, è perché quella non è una libreria: è un set televisivo. Fintissimo e perfetto. Fuori scende il nevischio, tra le quinte improvvisate del cantiere di villa Macherio tutto è pronto per dire agli italiani che l’ora è arrivata. Annunciaziò, annunciaziò. Consigli per gli acquisti al seggio elettorale. Berlusconi si candida a presidente degli italiani. Elezione diretta senza elezione diretta, Giorgia ancora minorenne prende appunti.

Alle 17,30 dello stesso giorno, il 26 gennaio 1994, il Tg4 di Emilio Fede è il primo a mandare in onda il video: «L’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici…». In poche ore tutti gli altri tg mandano in onda la versione integrale o la sintesi dei nove minuti abbondanti in cui il Cavaliere spiega di non poter lasciare il Paese in mano ai comunisti. Le elezioni sono imminenti, l’Italia è già divisa in due, anche se ancora non lo sa. Molti dicono: lo voto! Molti salgono sulle barricate: no pasarà. Qualcuno esulta («Finalmente per la prima volta in vita so per chi votare», dirà qualche settimana dopo Raimondo Vianello in diretta tv, mentre conduce Pressing), qualcuno inorridisce per il modo più ancora che per i contenuti: un video autoprodotto e imposto a tutta la filiera mediatica, la fine di ogni mediazione giornalistica e politica. Praticamente ciò che trent’anni dopo hanno fatto e fanno tutti, il blog di Grillo, i tweet di Renzi, le dirette Facebook di Salvini, Giorgia Meloni che trasforma la seduta del Consiglio dei ministri in una puntata pilota di Casa Meloni e suona la campanellina a favore di telecamera, din don, persino le quarte file di partito che registrano 15 secondi di dichiarazioni sul fatterello del giorno e le girano al caporedattore del tg che manda in onda com’è: buona la prima.

Berlusconi, invece, quel discorso lo ha provato e riprovato nei giorni precedenti, ha aggiunto le correzioni di Paolo Del Debbio, ha segnato gli incisi suggeriti da Giuliano Ferrara, ha memorizzato i consigli di Gianni Letta. Ora tutta Italia sa che è sceso in campo, è finito il teatrino, mi candido, non mi candido, lo faccio solo se costretto, non voglio bere l’amaro calice: Berlusconi chiede il voto per guidare «l’Azienda Italia», propone per il Paese «il modello Milan».

Qualcuno sa da tempo che tutto questo sarebbe accaduto. “E Forza Italia, che siamo tantissimi…”, c’è pure l’inno del partito pronto e senza inno che partito sarebbe? Un partito triste come la faccia di Martinazzoli, il democristiano che non ha capito i tempi nuovi, a differenza di quei ragazzetti svegli, Pierferdinando Casini e Clemente Mastella, quelli del Ccd, Centro cristiano democratico. Lo sa il leader della Lega Umberto Bossi («Io ci metto le televisioni e tu i voti del Nord», lo ha convinto il Cavaliere). Lo sa il leader del Movimento sociale italiano Gianfranco Fini, cui Berlusconi ha dedicato una leggendaria dichiarazione di voto virtuale mentre il capo dei postfascisti italiani è impegnato a sfidare Francesco Rutelli per la guida del Comune di Roma («Se fossi romano, voterei Fini», dice il Cavaliere a novembre del 1993 da un centro commerciale di Casalecchio di Reno, location turboberlusconiana). Lo sanno, ovviamente, i suoi collaboratori più stretti, Marcello Dell’Utri, che ha già trasformato un ramo della concessionaria di pubblicità, Publitalia, in una brigata di club di Forza Italia, ovvero cloeb nella indimenticabile pronuncia anglo-padana del Cavaliere; il meno noto geometra Edorardo Teruzzi, che nel tempo di un jingle ha messo in piedi la futura sede di Forza Italia a Milano, viale Isonzo 25; il sondaggista Gianni Pilo da Macomer, che sforna numeri su numeri sulla popolarità di Silvio, già autoproclamatosi «secondo solo a Gesù»; i direttori ingaggiati per le sue reti, programmi, giornali, Enrico Mentana, Indro Montanelli, ferocemente ostile all’idea e congedato dalla direzione del Giornale, Maurizio Costanzo, un altro dei pochi ad aver sconsigliato il passo. Ma chi conosce Berlusconi sa che c’è un momento preciso dopo il quale si è sentito davvero dentro la partita.

Fine settembre 1993, ultimi scampoli del governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi e della Prima Repubblica. I partiti che hanno governato l’Italia per cinquant’anni sono allo stremo, la sinistra postcomunista in giacca marrone si avvia a vincere senza avversari. Berlusconi varca il cancello di villa Frescot a Torino per comunicare la sua intenzione all’unico italiano che ammira quasi quanto sé stesso, l’altro secondo dopo Gesù negli indici di popolarità, Gianni Agnelli in arte l’Avvocato. «Avvocato, quest’anno non ho fatto vacanze, sto pensando a come sottrarre il Paese al rischio di cadere in mano ai comunisti». E Agnelli: «Non mi dica che vorrebbe entrare in politica». E cos’altro, sennò? Berlusconi sa che da Agnelli non avrà commenti né consigli. Agnelli sa che Berlusconi può essere utile: se vince, vincono in tanti, se perde, perde da solo. Sono seduti l’uno davanti all’altro, come in una scena vanziniana di Yuppies, il vero manifesto degli anni Ottanta, altro che Vacanze di Natale, gli italiani hanno smesso di chiedersi a che ora va a letto a Capodanno Toninho Cerezo, vogliono sapere a quanto stanno le Generali. La lettura di Capital è più erotica di Le ore. Com’è che Berlusconi dice sempre al suo staff? «Non esistono gli sfigati, esistono solo i diseducati al benessere».

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