Papa Francesco e Stato ebraico, l’allontanamento che nasce dal 7 ottobre

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CITTÀ DEL VATICANO – Per dirla con il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, la guerra tra Israele e Hamas «è anche uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima»: il mondo ebraico «non si è sentito sostenuto», i cristiani «si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra», i musulmani si sentono «ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il sette ottobre». Una ferita profonda che richiederà tempo per rimarginarsi.

Sulla quale la dichiarazione dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede cade come sale. Dando voce ad un indicibile sentimento di delusione nei confronti di papa Francesco che è andato maturando già nelle ore immediatamente successive al pogrom di Hamas. L’otto ottobre, quando l’orrore si sta ancora disvelando, Jorge Mario Bergoglio all’Angelus domenicale dice di seguire «con apprensione e dolore quanto sta avvenendo in Israele, dove la violenza è esplosa ancora più ferocemente, provocando centinaia di morti e feriti», auspica che «si comprenda che il terrorismo e la guerra non portano a nessuna soluzione». Israele e il mondo ebraico si aspettavano di più. Un vulnus che si approfondisce quando un mese dopo, il sei novembre, il Papa riceve un gruppo di rabbini europei: si intrattiene con loro, sembra preferire il rapporto personale ai ragionamenti, accusa un malessere, non legge il testo del discorso (nel quale diceva no tanto all’antisemitismo quanto all’«odio bellico»). Il pomeriggio incontra a lungo un gruppo di bambini da tutto il mondo. Chi si aspettava che fosse quella l’occasione per sentire dalla bocca del Papa una forte condanna morale nei confronti di Hamas per la più grave strage di ebrei dalla fine della seconda guerra mondiale, rimane interdetto.

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Un disagio che in Israele si approfondisce quando, a invasione di terra ormai avanzata nella Striscia di Gaza, Bergoglio, dopo aver temporeggiato, il 22 novembre riceve, separatamente, sia alcuni familiari di ostaggi israeliani nelle mani di Hamas sia un gruppo di parenti di palestinesi che vivono a Gaza. Con questi ultimi, riferiscono, parla di «genocidio». Per il Papa è il modo di dimostrare una “equivicinanza” a due sofferenze assolute, per l’Assemblea dei rabbini d’Italia un bilanciamento fatto di «acrobazie diplomatiche, equilibrismi e gelida equidistanza», che mette in forse «decenni di dialogo ebraico cristiano parlando di amicizia e fratellanza». Il cardinale Pietro Parolin replica, allora, che la Santa Sede «cerca in tutti i modi di essere giusta nei confronti di tutti e di tenere conto delle sofferenze di tutti».

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Papa Francesco è in una posizione scomoda, come tutta la Chiesa. Ascolta gli uni e gli altri. Ha fatto innumerevoli appelli «per la Palestina e per Israele». Si è impegnato, nelle dichiarazioni ufficiali e nei colloqui privati, a chiedere il rilascio degli ostaggi nelle mani di Hamas. In una recente lettera «ai fratelli e alle sorelle ebrei di Israele» ha condannato senza mezzi termini «ogni forma di antigiudaismo e antisemitismo» che possa essere originata dalla guerra in corso. Ma è altresì orripilato dalle morti a Gaza. Telefona tutti i giorni alla parrocchia cattolica di Gaza, dove si sono rifugiati centinaia di sfollati. È stato aggiornato via via della morte di Elham Farah, un’84enne freddata dai cecchini israeliani mentre cercava di tornare a casa, di Nahida e Samar, madre e figlia uccise da un incursione dei soldati nel complesso della parrocchia, di Hani Abou, un giovane che non ha potuto proseguire le dialisi perché non c’era più l’ospedale.

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Lutti e dolori che, alternando iniziative spontanee e l’arte della diplomazia, Bergoglio e i suoi uomini cercano di tenere insieme. Consapevoli, come ha avuto a dire il cardinale Pizzaballa nel corso di una lectio all’Università Cattolica di Roma, che «ciascuno vede sé stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce. Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza». E che il dialogo interreligioso, che oggi sembra frantumato, «dovrà forse fare un passaggio importante, e partire dalle attuali incomprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite».

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