Ritrovato Pato, marito di Fati e padre di Marie morte di sete nel deserto: “Ditemi dove sono i loro corpi”

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“Dormivano sempre in quella posizione”. Aveva chiesto loro di lasciarlo indietro, di provare a salvarsi perché lui non credeva di aver più forza di continuare ad avanzare nel deserto, dopo giorni passati a vagare senza acqua, né cibo. Ma quando ha raggiunto la Libia, dopo essere stato soccorso da tre sconosciuti, di Fati e Marie – madre e bimba morte abbracciate e divenute simbolo della crisi umanitaria in corso sul confine fra Libia e Tunisia – ha trovato solo le foto che le ritraevano quasi affondate tra la sabbia. “Speravo che fossero solo stanche, di vederle arrivare qui prima o poi, ma non ci sono. Ero io quello destinato a morire, non loro”, racconta con angoscia alla rete di Refugees in Libya che dopo aver restituito un volto e un nome alla mamma e alla sua piccola, l’ha rintracciato. “Sabato mattina alle 11 saremo a Milano, sotto l’ambasciata tunisina per chiedere giustizia per loro”, dicono gli attivisti italiani della rete, che per Pato hanno lanciato un crowdfunding.

Tunisia, violenza e morte alla frontiera

“Voglio sapere dove sono i loro corpi”

Ancora intrappolato in Libia, lui chiede almeno dei corpi da piangere. “Non so dove li mettano, mi hanno parlato di un obitorio, ma non ho mai sentito nulla di simile qui”. Ci ha vissuto, anzi ci è sopravvissuto per anni fra campi di prigionia, detenzioni arbitrarie, respingimenti. Avvicinarsi alle autorità per un migrante subsahariano è sempre un rischio. “Anche a costo di mettere a rischio la mia vita – dice – voglio sapere dove sono i loro corpi”.

Quell’incubo lo avevano affrontato insieme lui e Fati. Anzi, specifica, Matyla. Fati era solo il nome che aveva scelto per proteggersi da possibili persecuzioni religiose. Era originaria di Gbèka, Touba, nell’ovest della Costa d’Avorio ma era cresciuta a Yopougon, Abidjan. “Era orfana di padre e madre, unica figlia dei suoi genitori. Non aveva nessuno, solo la sorella di sua madre e suo cugino con cui era in contatto”.

Poi, da quando si sono conosciuti nel campo di prigionia di Qarabulli, ha avuto lui. E insieme hanno affrontato le detenzioni, le violenze, i tentativi di attraversare il mare, i lager. Quattro volte hanno tentato la traversata, quattro volte sono stati intercettati e detenuti. Bani-Walid, Tarik al Sikka, Ghout-Al-shaal/Al-Mabani, Tariq al Matar: i gironi dell’inferno libico li hanno attraversati tutti.

Un’odissea che ha richiesto un prezzo. Lei ha perso un figlio che forse sarebbe nato – “si vedeva già il pancione”, ricorda Pato – lui da anni convive con un timpano perforato e un’infezione che non va via. Ma insieme hanno resistito, racconta, e dal 12 marzo 2017 con loro c’era anche la piccola Marie.

È sperando in un futuro migliore per la loro bambina che, dopo quattro fughe fallite via mare, hanno provato a lasciarsi la Libia alle spalle via terra. Giovedì 13 luglio, insieme a un’altra donna e tre uomini, hanno tentato la traversata del deserto. Marie non era mai andata a scuola e la madre voleva darle la possibilità di studiare, di costruirsi un futuro. Le truppe della Garde Nationale tunisina non gliel’hanno permesso.

Il racconto

“Siamo arrivati ​​in Tunisia venerdì mattina. Abbiamo cercato di attraversare il confine, ma la polizia ci ha catturato e picchiato con le armi, rimandandoci nel deserto. Siamo rimasti lì tutto il giorno in attesa, venerdì sera ci abbiamo riprovato e ci siamo riusciti. Sabato mattina eravamo già a Ben Gardane, Zarzis”. Il peggio sembrava ormai alle spalle, ricorda. “Stavamo cercando un posto in cui poter bere dell’acqua – racconta Pato – ma la polizia ci ha nuovamente intercettato”. Per tutta la notte nessuno ha dato loro acqua o cibo, la mattina dopo sono stati trasferiti ad un altro posto di guardia. E lì ci sono state ancora botte, ancora maltrattamenti, prima di essere deportati e abbandonati nel deserto senza nulla da bere. Si sono messi in viaggio, ancora.

Pato ha retto un’ora, poi è crollato. “Mia moglie e mia figlia hanno iniziato a piangere. Ho chiesto loro di andarsene e di lasciarmi lì, perché se fossero rimaste con me sarebbero morte”. È successo, ma lontano da lui, che nel deserto aspettava solo che quell’agonia finisse. Ma tre ragazzi sudanesi lo hanno soccorso, gli hanno dato acqua da bere, lo hanno supportato nella lunga camminata verso il confine libico. Fati e Mari non l’hanno attraversato mai. Sono crollate nella zona di Al Assa. “Non sapevo dove fossero, finché non ho letto la notizia sui social network. Quando mi hanno mostrato le foto ho riconosciuto subito i loro vestiti e i loro corpi”. Le sue donne vorrebbe almeno salutarle, ma nessuno sa dirgli dove e se ci sia una tomba. “Chiunque abbia informazioni, mi aiuti” chiede disperato.

Ma la sua è solo una delle tante tragedie che da tempo si consumano sul confine. Nei giorni scorsi, almeno altri sei corpi, fra cui quelli di un padre con un bimbo piccolo, sono stati trovati nella zona di frontiera dalle guardie libiche. La Mezzaluna rossa continua a fornire body bag per cadaveri.

E dopo gli appelli che da settimane arrivano da ong e reti della società civile, adesso anche Unhcr e Oim, le agenzie Onu per i rifugiati e per le migrazioni, lanciano l’allarme: “Tra le persone bloccate ci sono donne (tra cui alcune incinte) e bambini. Sono bloccati nel deserto, affrontano il caldo estremo e non hanno accesso a un riparo, al cibo o all’acqua. È urgente che, mentre si cercano soluzioni immediate e umanitarie e a questa situazione, venga al contempo fornita assistenza umanitaria essenziale e salvavita”, si legge in una nota ufficiale. “Salvare vite umane deve essere la priorità e le persone bloccate devono essere portate in salvo”. Al momento, nessuno ha risposto.

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