Tra Biden e Netanyahu scintille sulla guerra. Hamas prova nuovi blitz

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Il presidente americano Joe Biden e altri – e di alto livello – nella sua Amministrazione sono sempre più frustrati e hanno perso la pazienza con il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu, perché respinge tutte le richieste americane, scrive Barak Ravid, giornalista di solito bene informato che segue le relazioni tra la Casa Bianca e Israele. I due, Biden e Netanyahu, non si parlano dal 23 dicembre, dopo che per i primi due mesi di guerra si erano telefonati almeno una volta ogni due giorni. E l’ultima chiamata si è conclusa con il presidente americano che dice: «Questa conversazione è finita».

L’Amministrazione Biden ha chiesto al governo israeliano di far entrare più aiuti umanitari dentro la Striscia di Gaza, dove la popolazione palestinese è allo stremo dopo cento giorni di assedio, di rallentare i bombardamenti per causare meno vittime fra i civili e anche di versare all’Autorità nazionale palestinese di Ramallah le entrate fiscali dovute, che Israele raccoglie ma che servono all’Anp per continuare a funzionare. Senza quei fondi, il governo palestinese in Cisgiordania – che l’Amministrazione Biden vorrebbe estendesse il suo controllo anche su Gaza dopo la guerra – è a rischio collasso in casa propria.

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«A ogni decisione Bibi mostra il medio a Biden», dice un senatore democratico a conoscenza degli scambi, «prendiamo schiaffi di continuo. Netanyahu ascolta più i suoi ministri dell’ultradestra come Itamar ben-Gvir e Bezalel Smotrich che il presidente degli Stati Uniti”. «C’è frustrazione immensa», dice un’altra fonte. Se gli israeliani non ascoltano, è l’avvertimento, Biden non potrà continuare a sostenere la loro campagna dentro Gaza. Per cercare una svolta diplomatica, l’Unione europea ha invitato israeliani e Anp al prossimo Consiglio europeo di lunedì 22 febbraio.

C’è aria di crisi concertata per Netanyahu. Il quotidiano Yediot Ahronoth scrive che il primo ministro starebbe trascinando la guerra per motivi politici e personali e che il rilascio dei rapiti «non è la sua priorità», accusa grave davanti all’opinione pubblica israeliana. Dall’altra parte il portavoce delle Brigate Qassam di Hamas, Abu Obeida, appare in un video per dire che il gruppo non avrebbe più notizie di molti ostaggi, perché non è più in grado di comunicare con alcuni dei nascondigli dove sono tenuti prigionieri.

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Sul fronte della guerra, ci sono tentativi di infiltrazione attraverso le barriere israeliane. Sono piccoli raid di squadre di miliziani, non operazioni di massa come il 7 ottobre: quattro palestinesi di un gruppo legato a Hamas sabato sera dal confine libanese e tre la sera prima nell’insediamento di Adora vicino a Hebron, in Cisgiordania. I quattro avevano tentato di approfittare del cattivo meteo, ma sono stati uccisi. I tre di Hebron sono riusciti a oltrepassare il reticolato e a sparare, ma anche loro sono stati uccisi. Se questi tentativi avessero successo e se queste squadre riuscissero a entrare in una casa e a uccidere una famiglia, l’effetto sorpresa e il nuovo trauma inferto dal fallimento di sicurezza di Israele sarebbero enormi, perché vorrebbe dire che cento giorni di guerra non avrebbero risolto le falle del 7 ottobre. Ieri gli aerei israeliani hanno lanciato un’ondata di attacchi pesanti nel Sud del Libano.

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