Quando Francesco “Sandokan” Schiavone venne dato per morto: “Mio padre in lacrime in ospedale per il riconoscimento…”

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C’è stato un giorno, meglio, un’alba, in cui il clan dei Casalesi pensò di aver perso il suo capo. La notizia si sparse in fretta: “Sandokan” è stato ucciso. Era rimasto colpito a morte, diceva il tam tam, durante una sparatoria tra camorristi rivali.

Non una boutade se persino gli investigatori per qualche ora lo credettero. Lo raccontano lui stesso e suo cugino Carmine negli atti giudiziari del maxiprocesso Spartacus.

Cos’era accaduto fu poi ricostruito dagli inquirenti: durante l’assalto a una bisca clandestina a Casapesenna tra il 17 e il 19 dicembre 1988, un’azione omicidiaria voluta proprio da Sandokan e i suoi per eliminare uno dei nipoti di Antonio Bardellino, vennero esplosi un centinaio di colpi tra l’interno e l’esterno del locale.

Si calcola che spararono qualcosa come 13 armi differenti. Tra i caduti, un calabrese, Michele Pardea, che era uno degli uomini di Antonio Salzillo (bersaglio della spedizione), che invece riuscì a scappare.

Pardea era quasi un sosia di Francesco Schiavone e complice anche la sua caratteristica barba, si pensò che il capo della cosca avesse perso la vita nell’agguato da lui stesso teso.

«Una mattina presto i carabinieri andarono a casa mia per prendere papà e accompagnarlo a fare il riconoscimento – racconta Sandokan – ai giudici della Corte di Assise – i carabinieri dicevano che io ero stato ammazzato nella bisca e allora mio padre andò con loro all’obitorio e si era così emozionato da ripetere “Sì è mio figlio, è lui”. C’era anche mio fratello Antonio che lo tirò per un braccio: “Ma no, guarda papà che non è Francesco, non è Ciccillo”. E mio padre: “No, è lui”. Insomma mi vedeva in quel momento lì, sul tavolaccio. Poi qualche carabiniere che forse mi conosceva bene attraverso le fotografie intervenne: “Mah…a me non pare proprio lui”. Intanto la voce si era diffusa e in casa mia piangevano tutti».

Un episodio ricordato pure dal cugino del boss, Carmine Schiavone, primo pentito del clan che, tra l’altro, ha accusato Sandokan anche dell’assalto alla bisca. «Alla fine mio padre – prosegue l’allora irriducibile camorrista, ora fresco collaboratore di giustizia – volle assolutamente vedermi e andò in casa di zio Peppe dove io stavo dormendo».

Un particolare che il capoclan cercò di sfruttare per scrollarsi di dosso l’accusa del raid sanguinario: «Non ho partecipato a niente…non mi sono mosso di lì tutta la notte».

Parole che anticiparono lo scontro verbale tra i due cugini, Francesco e Carmine, in aula, durante la lunga audizione di quest’ultimo. Disse Sandokan: «Tu le so sai bene tutto questo, perché ti stai inventando tutte queste cose? Lo vorrei sapere il perché! È un mitomane, un pazzo».

Va detto che anche per l’assalto alla bisca Sandokan è stato ritenuto colpevole. Uno dei 12 delitti che, assieme all’accusa di associazione mafiosa, gli è poi costatto la condanna all’ergastolo.

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